Nimpo: Penelope allo Specchio

Penelope allo specchio: fili di una tela rivelatrice
di Flavio Nimpo

Penelope ha sentito e vissuto
il dolore di un parto
e aspetta come colonna cristallina,
mentre all’altare dell’amore
Cassandra non ha più voce…
(Francesca Aurelio)

Gli studi mi hanno consentito di accostarmi al personaggio di Penelope, avendo la possibilità di esplorare un universo interiore, che ha svelato lati nascosti di una figura tradizionalmente concepita come colei che attende per antonomasia, la sposa fedele, depositaria di valori pronti ad assimilarla all’immagine del focolare domestico. In effetti si è delineato un volto “a tutto tondo”, che ha rivelato tratti e sfaccettature capaci di rendere il profilo della regina di Itaca più complesso ed intrigante tanto da restituircela non in qualità di tessitrice instancabile, ma anche come donna multiforme al pari del suo amato consorte.

Lo spunto, che ha ispirato il presente lavoro, si deve alla lettura dell’interessante e pregevole saggio critico di Laura Faranda dal titolo Dimore del corpo [1]L. Faranda, Dimore del corpo, Meltemi Editore, Roma, 1997, in cui l’autrice dedica un capitolo allo specchio e alla tela, oggetti legati alla sfera femminile ed accomunati da un’essenza che rimanda all’immaginazione, al simbolico, alla rivelazione, al disvelamento dell’invisibile e ad una sorta di rovesciamento della realtà, ad un gioco di luci e di ombre. Entrambi rinviano ad elementi, che definiscono lo spazio delle donne in apparenza composto, ma possono trarre in inganno e non sempre sono garanzia affidabile di equilibrio e di saggezza. Come efficacemente scrive la Faranda a proposito della danza virtuale di una donna al suo telaio: “Una danza che sottomette lo specchio del tempo a tempi canonici femminili, ma che al tempo stesso , come vedremo, racconta un tempo “astorico” in cui la donna denuncia i propri nemici, in un linguaggio traducibile solo attingendo al lessico femminile maturato nelle leggendarie stanze del telaio. Stanze dove il tempo sembra arrestarsi e dove spesso il silenzio si articola – fra le trame e le scene allegoriche di un tessuto – in linguaggio del dolore” [2]L. Faranda, op. cit., p.24

L’arte della tessitura, che ritrova la sua patrona in Atena, dea dell’intelligenza unita all’astuzia, della capacità di saper approfittare delle occasioni e di ogni mezzo, rimanda all’abilità di intrecciare fili, trame ed orditi pronti a tradursi in progetti proposti, poi, sotto forma di narrazione dall’intelletto e, allora, le tele mostrano riflessi cangianti come lo specchio, rivelano, ingannano, nascondono il vero in immagine apparente.

Nei poemi omerici l’immagine e la metafora della tela si legano emblematicamente a determinate figure femminili, a partire proprio da Atena stessa, che, ad esempio, nei libri quinto e quattordicesimo dell’Iliade è la tessitrice da cui proviene l’arte del tessere come espressione di affermazione, ingegno, arte, abilità. Poi segue una carrellata di donne, in apparenza legate all’atto della tessitura quale conferma della loro condizione subalterna a quella maschile e non pubblica ma privata. In realtà le tele da loro tessute rivelano “storie taciute o nascoste”, che “tradiscono” la loro alterità. Come non pensare, a questo proposito, alla donna fatale per eccellenza? Elena, infatti, compare nel libro terzo dell’Iliade, quando è raggiunta da Iride, la messaggera olimpica, che la invita ad assistere al duello di Paride e Menelao e le instilla desiderio dello sposo e della propria terra, mentre l’altra è intenta a tessere una tela doppia e di porpora sulla quale ricama le imprese di Troiani ed Achei. La metafora di Elena al telaio rappresenta l’archetipo della poesia omerica: tessere e poetare sono speculari, le due arti ricorrono agli stessi procedimenti, differiscono solo per il rapporto immagine-parola, poiché la prima, filata sul tessuto, fornisce materia all’altra. Nell’Odissea la tessitura si lega all’idea di trama e di insidia: Calipso e Circe tessono e la loro tela non è solo metafora del racconto, ma anche dell’inganno perpetrato, per raggiungere uno scopo ben preciso. Esse tessono cantando: la malia del canto, con cui intendono sedurre, si nasconde nell’atto, apparentemente innocuo, di stare al telaio. La voce rivela il loro vero intento e la loro natura: cantano e suscitano incanto come le Sirene, mentre Penelope tesse, ma piange, ci ricorda Eva Cantarella [3]E. Cantarella, Itaca, Feltrinelli, Milano, 2002, pp.137-138. Ecco, dunque, la tessitrice per antonomasia: Penelope, figlia dello spartano Icario e della Naiade Peribea, colei che il padre aveva temuto a causa dell’erronea interpretazione di un oracolo, secondo cui ella avrebbe tessuto il suo sudario, e così aveva ordinato che fosse gettata in mare, dimenticando le origini marine della piccola, partorita da una ninfa del mare e destinata a vivere l’acqua come elemento naturale. Suggestive le parole con cui, secondo Margaret Atwood, la madre si era rivolta a Penelope: “L’acqua non oppone resistenza. L’acqua scorre. Quando immergi una mano nell’acqua senti solo una carezza. L’acqua non è un muro, non può fermarti. Va dove vuole andare e niente le si può opporre. L’acqua è paziente. L’acqua che gocciola consuma una pietra. Ricordatelo, bambina mia. Ricordati che per una metà tu sei acqua. Se non puoi superare un ostacolo, giragli intorno. Come fa l’acqua” [4]M. Atwood, Il canto di Penelope, Rizzoli, Milano, 2005, p. 44

La futura sposa di Ulisse è, dunque, destinata ad essere paziente, tenace, capace di insinuarsi e di superare gli ostacoli come l’acqua; ella diventerà la donna che osserva, medita, tesse nel senso letterale e in quello traslato, per, poi, esprimere il suo muto dolore con sottile atto esplosivo e non implosivo, come l’apparenza indurrebbe a pensare. Infatti cade il pregiudizio, che mostra una regina dimessa e silente, e si palesa una natura bifronte: Penelope è parimenti disinvolta e timida, dominante e sottomessa, pronta all’accettazione e al rifiuto, al ritiro e all’esternazione; appare prigioniera del proprio ruolo, ma, nello stesso tempo, evidenzia un’inesauribile coazione all’ordito, come scrive Amalia Vanacore, l’ordito del “drappo che la regina tesse e disfa per il suocero Laerte. Si nota chiaramente, in questo atteggiamento, il meccanismo di difesa detto di coazione a ripetere, che spinge l’individuo a mettere in atto determinati comportamenti di cui egli stesso riconosce l’inutilità. Penelope, tuttavia, lucida e determinata nel suo comportamento, ne intravede l’utilità, giungendo a realizzare un gioco di seduzione tra i Proci attraverso il desiderio e l’attesa.” [5]A. Vanacore, Antologia omerica modulare, Loffredo Editore, Napoli, 2004, p. 90 Ella è definita bella e saggia, ma può essere definita come Ulisse multiforme, versatile, accorta, capace di molti espedienti, poiché è figlia della ragione, imperterrita calcolatrice, che medita altro, ci ricorda Pietro Citati, secondo il quale “lo spirito di Penelope è sempre doppio: mentre parla, una forza segreta, che agisce dentro di lei, ragiona, trama, macchina, calcola, inganna, esattamente come fa Ulisse. (…) Il marito e la moglie sono simili e dissimili: si contraddicono e si completano.” [6]P. Citati, La mente colorata, Oscar Mondadori, 2004, pp.239-240 Il suo tessere si differenzia da quello di Calipso, Circe ed Elena, poiché, pur rimandando, come il loro, alla metafora di un intreccio di fili che narra ed irretisce, rispecchia la sua paziente attesa e la sua tacita abilità ingegnosa di progettare, con le quali intende rendere l’inutile atto di fare e disfare l’utile volontà di fermare il tempo. “Penelope tesse (e, finché può, ritesse) un immenso lenzuolo assolutamente privo di ricami, di immagini, di storie: un sudario, tutto bianco, luminoso come sole o luna” (Od., XXIV, 148). Ora, la scelta dell’oggetto è senz’altro intonata sia all’età avanzata del padre di Odisseo e al suo stato di sofferenza per la scomparsa del figlio (…) sia alla situazione, di fatto vedovile, luttuosa, di Penelope stessa: ma anche e soprattutto è intonata al vuoto totale di notizie attendibili intorno al suo sposo: quello che Penelope non può, ma che tanto vorrebbe ritrarre sulla tela, è l’Odissea stessa, la storia di Odisseo, del suo infinito peregrinare alla ricerca di Itaca (…) Il bianco del telo è il vuoto temporale dell’assenza del marito: è come se il tempo si fosse fermato nell’attesa del suo ritorno.” [7]Chiarini, in F. Malvezzi, Epiké, Società Dante Alighieri Editrice, Roma, 2010, p. 174-175 L’incessante
tessere della sposa di Ulisse ci appare come espressione del suo stato: l’attesa di colei che medita e ordisce. La ripetitività del gesto identico della tessitura è cadenza di un tempo immobile, solitario, è l’immagine dell’identico senza fine, come suggerisce la Faranda. [8]L. Faranda, op. cit., p. 31-32 L’astuta scelta del tessere e del disfare la tela è tempo del dolore, che si consuma, in attesa del divenire. In apparenza Penelope nega il presente, nel silenzio e nella solitudine delle sue stanze, per tessere, in realtà, i fili intrecciati dal suo ingegno, che pianifica il ritorno alla sua dimensione di sposa e di regina. La tela è “l’unica via che conosce per coniugare passato e presente, per accordare la memoria alla progettualità, l’irruzione degli eventi ai suoi ritmi temporali, alla sua storia personale.” [9]L. Faranda, op. cit., p. 34 Fin qui si delinea il profilo assodato di una donna bella, saggia, rispettosa di norme e costumi pubblici e privati, assennata, instancabile nelle opere e nei lavori che si addicono al mondo femminile, ma a queste qualità si aggiunge solo per lei, fra tutte, l’astuzia, come ci fa notare Eva Cantarella: “la celebre metis, che caratterizza suo marito: l’intelligenza astuta, una forma di intelligenza, sia ben chiaro, inferiore al celebre logos, non a caso esclusivamente maschile. (…) Un’intelligenza “bassa”, frutto dell’esperienza e della riflessione, utilizzata per raggiungere obiettivi concreti, spesso materiali”.[10]E. Cantarella, op. cit., p. 62 Per tale tratto, dunque, ella apparirebbe unica, “insolita”, “ambigua”, una sorta di eroina tra lacrime e macchinazioni e, di conseguenza, non stupisce che studiosi della civiltà classica ne siano rimasti suggestionati a tal punto da analizzare le figure di Ulisse e di Penelope da un altro punto di vista, giungendo a conclusioni che esaltano la complessità, la lungimiranza, il fine acume della consorte dell’eroe di Itaca, addirittura superiore, per certi aspetti, a quello dello sposo. Ne deriva un’immagine, che la propone fiera del suo intelletto, della sua metis, della sua capacità di tessere tele reali e metaforiche, di filare nel silenzio e nell’attesa trame ed orditi che riconducono alla vita intesa come rapporto dell’io con l’altro. Come suggerisce sempre la Cantarella, l’Odissea rivela qua e là indizi di tratti inconsueti della regina itacese, la cui astuzia sembra stridente con la realtà delle donne oneste, secondo la mentalità del tempo. Inoltre “la pudicizia e soprattutto la fedeltà di Penelope sono tutt’altro che al di
fuori di ogni sospetto. Più di una volta, Penelope appare diversa dalla sua plurisecolare, consolidata, inossidabile immagine di moglie incorruttibilmente fedele. Nelle sue stanze, di giorno e di notte, questo è vero, Penelope piange. Piange per la lontananza del marito, piange per l’incertezza della sua sorte, si dispera all’idea di nuove nozze. Ma ai pianti alterna momenti di ripensamento, durante i quali sembra prendere in considerazione l’ipotesi di prendere nuovamente marito.” [11]E. Cantarella, op. cit., p. 65-66 I pretendenti, infatti, dichiarano di essere illusi da lei, di ricevere di nascosto promesse e messaggi, che inducono a sperare e, implicitamente, rivelano una sottile forma di seduzione. Essi sono rimproverati di non essere corteggiatori di tempi precedenti, che erano soliti
portare doni e così si affrettano a donarle pepli, fibbie, collane, pendenti di perle, che Penelope accetta e mette al sicuro. A tal proposito, però, si potrebbe anche pensare alla trama di un’altra tela: rimpinguare i beni sperperati dai Proci, sedotti e confusi con grazia; intanto, come suggerisce l’interpretazione di Pietro Citati [12]P. Citati, op. cit., p. 243, ella, ispirata da Atena, tesse i fili che la riannodano ad Ulisse.

Dunque Penelope è assolta o, ancora, ombre opacizzano la sua figura? Se Citati assolve la regina, la Cantarella instilla altri dubbi sul suo profilo “ambiguo”, ricordandoci che, fin dall’antichità, si avanzarono dubbi sulla fedeltà della sposa di Ulisse e, di conseguenza, sulla paternità di Telemaco, come si allude in alcuni libri dell’Odissea (I, 215-216; III, 122-123; XVI, 300). L’autrice, inoltre, segnala altre fonti: “Nella Epitome della Biblioteca di Apollodoro (7, 38), per cominciare, leggiamo che secondo alcuni Ulisse, tornato a Itaca, rimandò Penelope dal padre Icario, perché si era fatta sedurre da Antinoo (secondo altri, invece, Ulisse l’avrebbe uccisa perché si era fatta sedurre da Anfinomo). Seguendo la tradizione di Mantinea, riportata da Pausania (8,12, 5 sgg.), Penelope, dopo il ritorno di Ulisse, sarebbe stata bandita da Itaca per infedeltà , e dopo un lungo esilio, dapprima a Sparta e quindi a Mantinea, sarebbe morta in quella città, ove si troverebbe la sua tomba. Cicerone (La natura degli dei, 3, 22, 56) ricorda la tradizione secondo cui, unitasi a Ermes, Penelope avrebbe generato Pan, e gli scolii di Tzetze all’Alessandra di Licofrone (v.772) arrivano significativamente a considerare Pan come generato da tutti i pretendenti.” [13]E. Cantarella, op. cit., p. 70 Come, dunque, collegare tutto ciò al profilo tradizionale della sposa di Ulisse? A soccorrerci giunge sempre il commento illuminante della Cantarella: si deve ricordare che l’opinione sulle donne, nel mondo classico, non era favorevole e induceva a diffidare di loro. Penelope, unica per intelligenza legata all’astuzia, rimandava al cliché femminile dell’uomo omerico, secondo cui anche la migliore delle donne era infedele, volubile, interessata. [14]E. Cantarella, op. cit., p. 71-72

Le ambiguità e le contraddizioni di questo personaggio risalgono, forse, “alla contraddizione tra la funzione didattica della poesia epica e la mentalità di chi l’ascoltava (e dell’aedo stesso). Data la sua funzione di formazione culturale, la poesia doveva rappresentare una donna che simbolizzasse tutte le virtù femminili. A Penelope toccò in sorte di essere quella donna. Ma il mondo in cui la poesia svolgeva questa funzione diffidava profondamente delle donne. Penelope, nei suoi diversi aspetti, nelle sue diverse manifestazioni e contraddizioni sembra riflettere tale contraddizione. Da un canto (prevalentemente) Penelope era il modello; dall’altro (di quando in quando: ma con una certa frequenza) era una donna, con tutti i caratteri e i difetti che gli uomini omerici pensavano che le donne avessero.” [15]E. Cantarella, op. cit., p. 72 Comunque stiano le cose, in conclusione, preferisco sintetizzare la figura di questo suggestivo personaggio con la definizione, condivisa in pieno da me, del già menzionato Citati: Penelope è quella dei segni segreti nascosti agli estranei, “come interprete e custode dei segni (noi diremmo dei simboli), Penelope è molto più sottile del marito. Forse il dono di cogliere i segni, nei quali si concentra l’affettuosa intimità di un rapporto, è un’arte soprattutto femminile. Essi sono il vero tesoro di Penelope: più importanti di tutti quelli che custodisce nella dispensa. Tra poco, senza dire una parola, Penelope insegnerà quest’arte ad Ulisse.” [16]P. Citati, op. cit., pp.269-270

Ella è la donna di cui C. Marchesi ha scritto: “Un lieve sorriso lampeggia sulle sue labbra (…) Penelope scende giù; e si ferma sulla porta, con più mistero nel volto chiuso dal velo fin sulle gote…” [17]C. Marchesi, Voci di antichi, Leonardo, Roma, 1946, p. 218. La regina di Itaca è figura emblematica, che continua a suggestionare e ad ispirare per il suo fascino “silente e apparentemente dimesso”, avvolto in una dimensione complessa e multiforme. Si pensi, ad esempio, ai versi di poeti greci del Novecento: “Il tuo cuore eletto / – eletto perché io l’ho scelto – / sarà sempre altrove / e io taglierò con le parole / i fili che mi legano / a quest’uomo particolare / del quale ho nostalgia…” (da Dice Penelope, di Katerina Anghelaki-Rooke); “Lei si voltò e, assennata come sempre, / gli rispose: “Questo mio cuore, che tu / definisci duro e inflessibile, non lo trovo più, / perché mi è impazzito nel petto, / e non ha più parole, e china il capo.” (da Penelope riconosce Odisseo, di Kiriakos Charalambidis).

Senza andare troppo lontano, possiamo avvalerci anche del contributo di autori contemporanei e locali: “Simbolo di fedeltà e pazienza infinita / accompagni ogni donna al tuo destino. / Così voleva Omero e tutti gli uomini del mondo.” (da Penelope, di Rosellina Prete); “Sfilo la tela / più per fragilità / che per costanza / e la paura del suo mancato arrivo / precipita me / nel baratro di un cuore / che dimenticherà le vibrazioni / della parola pace.” (da Odissea 2012, ne Il bilico, di Francesco Lappano); “Aspetto che sia l’ora / della dimenticanza, / per vederti arrivare / dall’onda meretrice / e negarmi al primo / sguardo traditore / che tesse ancora / malie e…domande / e turbinose fole.” (da La mia Penelope 2013, di Francesca Aurelio); “Vago come zattera / alla deriva… / Attendere è il mio destino / ma scruto nei meandri / del mio essere / e ritrovo la chiave / che mi riconduce a me stessa / per vivere…” (Penelope, di Divina Lappano); “Vivo dove cambia / ogni colore dell’arcobaleno / con un silenzio nel cuore / per una voce troppo lontana / Ho seguito i fili dell’attesa… / Il rumore del telaio / scandiva ogni domanda / e la speranza era il fiato / che diceva domani / Ah, il veleno dei ricordi! / Il gomitolo che inghiotte / ogni altro desiderio / Il disegno incompiuto / è il nostro destino / La mano che fa e che disfa / ignora l’inganno / Una sola è la strada del cuore / Possa la vita insinuarsi / e squarciare col suo lampo / l’orologio fermo del mio tempo! / Io / schiava della mia catena / attendo te / con la tua faretra colma / delle frecce che mi hai rubato / Credere / è la sfida più grande / e quest’audacia ha un solo nome / il mio: / Penelope” (I fili dell’attesa, di Elisa Biasi); “Attendere è apnea / insopportabile… / Anelo riemergere / dall’abisso di fondali / che struggono la mia anima… / Sono io la più forte / e non lo sapevo… / Il tuo ingegno / impallidisce dinanzi al mio / che prevede le tue mosse… / È solo il mio cuore infinito / ad amarti… / A lui solo / devi la mia attesa / incessante, / mentre desidero riaffiorare / a pelo d’acqua, / per respirare l’aria salmastra / del mare… l’unico / che mi abbia amato / veramente…” (Il respiro di Penelope, di autore che ha richiesto l’anonimato).

Il suggestivo mosaico, realizzato con le tessere disseminate lungo l’ideale viaggio alla riscoperta di Penelope, contribuisce a rivelare il luminoso intreccio di candidi fili, che compongono la sua tela, specchio di sé e di quanto afferisce al suo mondo pubblico e privato. Essa è il simbolo in cui si racchiude l’essenza del personaggio stesso, che, secondo le parole a lei attribuite da Margaret Atwood, precisa: “Non amo che si usi la parola tela. Se il sudario fosse stato una tela, io sarei stata un ragno, ma il mio scopo non era catturare gli uomini come fossero mosche, al contrario, non volevo farmi catturare.” [18]M. Atwood, op.cit., p. 94

Riferimenti:   [ + ]

1. L. Faranda, Dimore del corpo, Meltemi Editore, Roma, 1997
2. L. Faranda, op. cit., p.24
3. E. Cantarella, Itaca, Feltrinelli, Milano, 2002, pp.137-138
4. M. Atwood, Il canto di Penelope, Rizzoli, Milano, 2005, p. 44
5. A. Vanacore, Antologia omerica modulare, Loffredo Editore, Napoli, 2004, p. 90
6. P. Citati, La mente colorata, Oscar Mondadori, 2004, pp.239-240
7. Chiarini, in F. Malvezzi, Epiké, Società Dante Alighieri Editrice, Roma, 2010, p. 174-175
8. L. Faranda, op. cit., p. 31-32
9. L. Faranda, op. cit., p. 34
10. E. Cantarella, op. cit., p. 62
11. E. Cantarella, op. cit., p. 65-66
12. P. Citati, op. cit., p. 243
13. E. Cantarella, op. cit., p. 70
14. E. Cantarella, op. cit., p. 71-72
15. E. Cantarella, op. cit., p. 72
16. P. Citati, op. cit., pp.269-270
17. C. Marchesi, Voci di antichi, Leonardo, Roma, 1946, p. 218
18. M. Atwood, op.cit., p. 94

Martin: Le fonti greche dell’Excursus antropologico di Vitruvio

Le fonti greche dell’Excursus antropologico in Vitruvio
di Marco Martin

[de architectura, 6.1.1-10]

Abstract:
At the beginning of the technical treatise De Architectura of Vitruvius we can read a very interesting ethnographical excursus and we can pick out Posidonius of Apamea as main source (see De arch. VI 1, 1-10 = FgrHist.87 FF. 120-122), with a clear cross-reference to the qualitative polarity derived from aristothelical thought, that followed Hippocrathes, courage-stupidity /  cowardice-sharp mind, enclosed in climatic limits north and south. Aristotheles dealt with the features of blood in relation with the animal psychology and Posidonius was the first scholar  to connect the structure of the human body with the environment conditions, in which he lives, like Hippocrates has already said. Vitruvius uses Greek thought and in particular the posidonian theory of thymos, original part of northern people and site of instincts and emotions. Finally Vitruvius shows to know deeply the Greek debate about ethnographical topics and he is able to propose it to the Roman readers.

All’inizio del VI libro del De architectura, dedicato soprattutto alle regole di costruzione degli edifici privati, delle case di campagna e alle tipologie della casa greca, all’interno, quindi, di una trattazione tecnica e specializzata, Vitruvio si sofferma a considerare quibus regionibus aut quibus inclinationibus mundi constituantur, poiché in funzione della posizione geografica gli edifici necessitano di caratteristiche diverse: a nord, infatti, devono essere chiusi e protetti, mentre a sud sono aperti e  haec autem ex natura rerum sunt animadvertenda et consideranda atque etiam ex membris corporibusque gentium observanda

Tale passaggio introduce un excursus etnografico di grande interesse, nel quale si può subito riconoscere lo scienziato, filosofo e storico Posidonio di Apamea come fonte diretta. Vitruvio afferma che dove il sole effonde il proprio calore con più moderazione, lì conserva temperati anche i corpi ; dove invece, passando più vicino alla terra, la brucia, consuma anche il giusto grado di umidità. Nelle zone più fredde del settentrione, al contrario, l’umidità non viene assorbita dal sole, troppo debole, ma l’aria rugiadosa e leggera, facendo fluire nei corpi l’umidità dal cielo, produce ampliores corporaturas vocisque sonitus graviores. Per questo motivo climatico, ex eo quoque, i popoli che vivono a nord sono caratterizzati da inmanibus corporibus, candidis coloribus, derecto capillo et rufo, oculis caesis, sanguine multo ab umoris plenitate caelique refrigerationibus . I popoli che, invece, si trovano più vicino all’equatore e sotto l’orbita del sole, per l’intensità del calore solare, si segnalano per brevioribus corporibus, colore fusco, crispo capillo, oculis nigris, cruribus validis, sanguine exiguo . Proprio l’esiguità di quest’ultimo li rende, inoltre, più timorosi nell’opporre resistenza alle armi, sono, cioè, timidiores ferro resistere, ma sopportano con forza grandi calori e febbri, perché è dal calore che le loro membra risultano nutrite ; i nordici, invece, hanno corpi timidiora et inbecilla a febri, ma grazie alla quantità di sangue resistono alle armi sine timore. In virtù della tenuitas caeli (esattamente, quindi, come per l’aria pura e leptomereèstaton respirata dagli indiani descritti da Megastene), e  con un ingegno che è acuito dal calore, le popolazioni meridionali sono più spedite e pronte nel concepire piani e sono di animis acutissimis infinitaque sollertia consiliorum, mentre le popolazioni del nord, a causa della spessa atmosfera in cui vivono, sono raffreddate dall’immobilità dell’aria umida e hanno mentes stupentes, cioè mostrano un’intelligenza torpida .

I popoli del sud, però, non sono in grado di affrontare imprese che richiedano energia ed operosità, poiché il sole ha come risucchiato loro le animorum virtutes ; i nordici, invece, ad armorum vehementiam paratiores sunt, sono dotati di grande coraggio ed agiscono con valore senza timore, ma attaccano irruentes sine considerantia, senza, cioè, riflettere, a causa della loro tarditas animi che, così, spesso frustra ed avvilisce i loro disegni . L’aspetto principale che si pone all’attenzione, dalla lettura del testo vitruviano, è la ripresa della polarità qualitativa aristotelica coraggio / stupidità e viltà / intelligenza, inserita armoniosamente fra i due estremi climatici, nord-sud, e chiaramente riferita alla natura del sangue che determina, in stretta relazione all’influenza esercitata dal clima, i comportamenti dei popoli. Aristotele si era occupato delle caratteristiche del sangue solo in relazione alla psicologia animale e non metteva direttamente in rapporto la conformazione fisica e strutturale dell’uomo con le condizioni ambientali in cui esso vive. Tale unificazione di elementi, prima sparsi, attestata da Vitruvio, si può affermare che sia avvenuta grazie all’apporto fornito alla speculazione scientifico-etnografica dalla personalità di Posidonio di Apamea, il quale, specificamente, nella sua trattazione del carattere dei Celti ha applicato la teoria psico-climatica, riconoscendo nel qumoév l’elemento distintivo che determinava il comportamento di quella popolazione settentrionale . Egli, infatti, incentrò la propria attenzione sull’analisi delle caratteristiche antropologiche dei Celti e cercò di delinearne un quadro scientifico, che risulta proprio imperniato sull’identificazione della categoria psichica e comportamentale del qumoév.

I poemi omerici come precedente letterario della categoria antropologica posidoniana del qumoév

Tale teoria, pur nella sua originalità, presenta, però, un profondo retroterra culturale, consolidato da una tradizione secolare che lasciò le proprie tracce fino in età ellenistica.  Nell’epica omerica il qumoév  è, infatti, fondamentalmente ciò che provoca le emozioni e si presenta come un organo del movimento e del sentimento, che induce al compimento di un’azione. Tale organo è molto lontano dal concetto medico-fisiologico successivo di organismo e di unità organica e gode di un’indipendenza funzionale del tutto incompatibile con la mentalità scientifica post-omerica . L’uomo omerico, infatti, non aveva ancora elaborato un concetto unitario dell’anima e della personalità, e dall’esame lessicale dei poemi epici emerge con evidenza che sia il corpo che la sfera spirituale-emotiva risultano come delle realtà composite, non perfettamente definite e spesso frammentarie.

L’eroe omerico ritiene che il proprio corpo non costituisca un’unità, formata da parti, ma ne ha una concezione di un insieme di membra praticamente autonome . Allo stesso modo lo spirito o l’anima si presentano come entità  che difficilmente si potrebbero accostare al concetto più tardo di anima nel senso di  yuchè. Ad indicare, genericamente, l’anima Omero usa tre termini : yuch, qumoév e  noéov. La yuch è il “soffio vitale”, poiché mostra la sua affinità con yucein, è l’anima in quanto “anima” dell’uomo e lo tiene in vita  e quando si allontana dall’uomo, come un respiro, vola via, attraverso la bocca, verso l’Ade, dove inizia a condurre la vita di uno spettro, di un ei\édolon del defunto, e l’uomo, senza il suo soffio vitale, cessa di esistere . Il noéov invece, è la sede dell’intelletto , ma spesso le sue funzioni si confondono e si sovrappongono con quelle del qumoév, esattamente come quest’ultimo non è sempre chiaramente distinto dalla yuché. Infatti, nonostante la gioia, che è un’emozione, abbia di norma sede nel qumoév, tuttavia, quando Achille ed Odisseo vengono a litigare, Agamennone cai%re noé§ ma si rallegra, si potrebbe dire, sensatamente, cioè a ragion veduta, in quanto egli sa che Troia, secondo la profezia di Apollo, sarà conquistata solo quando i migliori eroi verranno a contesa, quindi è a questo pensiero che gioisce .

Al contrario, nonostante sia il qumoév che spinge all’azione, Nestore afferma, parlando con Agamennone, di volere vedere se il noéov  può condurre a qualcosa nella conduzione della guerra, ma è chiaro che in tale frangente si tratta di un pensiero, di una riflessione che porta poi ad agire . La marcata caratteristica di entità separata ed autonoma dall’individuo è, però, ancora più evidente nel qumoév, che nell’eroe omerico, come nelle culture primitive, si presenta come un organo che non viene per nulla avvertito come cosa materiale ed inerte, ma viene sentito come portatore della specifica funzione, o meglio come forza  che interagisce con numerose altre forze agenti dall’esterno e con impulsi che sollecitano costantemente l’individuo.

Il qumoév fa parte integrante del mondo spirituale ed una sua connotazione primitiva, forse precedente a quella di organo delle emozioni o, più in generale, del sentimento, affine a quella di anima-respiro / anima-vita della yuché risulta chiara da numerose testimonianze, che riferiscono del qumoév, quando si tratta del momento in cui un personaggio muore ed esso lo abbandona, lasciandolo senza vita . Il qumoév, dunque, è la forza vitale  e si presenta come una costante alterità rispetto all’individuo, infatti il rapporto tra il soggetto e il suo qumoév è quasi come quello con un altro individuo : il  qumoév dice all’uomo quando deve mangiare e bere , lo spinge a combattere contro un nemico , gli consiglia le azioni da compiere e gli suggerisce le parole opportune da dire . L’uomo omerico parla direttamente con il suo “cuore”, con il suo “animo”, compiendo una tipica operazione di oggettivazione degli impulsi emotivi, per cui il qumoév risulta un altro-io, la voce interiore indipendente, di cui generalmente si seguono i consigli, ma che a volte può essere anche respinta e trascurata , oppure concepita come un fedele compagno da esortare e rinfrancare, con un tono di rimprovero, in caso di necessità, come eloquentemente dimostra la conversazione tra Odisseo e il suo cuore.  In definitiva, che l’unità dell’anima sia del tutto ignota ad Omero e che il  qumoév già si presenti come ciò che determina una particolare funzione, senza ancora apparire, però, come una specifica parte dell’anima, secondo la teoria platonica, e preluda alla formazione di concetti quali “volontà” e, soprattutto, “carattere”, risulta chiaro da un esempio tratto dall’episodio di Odisseo che, spinto dal suo qumoév a colpire a morte con la spada il Ciclope, ormai addormentato, viene trattenuto da un altro qumoév, che più accortamente gli suggerisce di aspettare, in quanto, una volta anche ucciso il mostro, non sarebbe stato possibile smuovere il macigno che bloccava l’ingresso della grotta.

\éEterov  deé me qumoév e\éruken, afferma Odisseo, e nessun’altra espressione poteva essere più esplicita, a proposito della natura altera e dell’oscillazione tra un io ed un altro da sé, si potrebbe dire un io oggettivato, quindi un non-io, presenti nella mentalità dell’uomo omerico. Il qumoév, dunque, risulta l’organo sede di tutta la gamma delle passioni, delle emozioni e dei sentimenti :  dall’amore  alla gioia , dal dolore  allo sdegno , dalla commozione  alla paura , dall’ardore guerriero ed il coraggio  all’ira . Così risulta chiaro che il qumoév semplice organo, sede delle emozioni, ma non origine di esse, è soggetto all’interazioni di varie forze, di natura soprannaturale, che s’impongono penetrandolo ed aumentandone o diminuendone l’intensità : l’azione del divino, infatti, si pone come necessario complemento alla concezione stessa di realtà spirituale o di anima in Omero. Il dio interviene, non direttamente sull’uomo, ma sul suo qumoév , o sulla sua sede fisica, il petto o il diaframma . E’ per questo motivo, infatti, che Diomede dichiara che Achille riprenderà a combattere solo quando il suo qumoèv e\niè  steéqessin  a\nwégh o quando un dio lo costringerà .

Una serie di versi relativi all’episodio della maga Circe può servire come utile compendio riassuntivo per la definizione della natura del qumoév: la maga invita Odisseo ed i suoi compagni a mangiare e a bere, affinchè nel petto il qumoév , inteso come forza vitale, possa riaversi dalle fatiche, poiché tutti gli uomini, stremati, risultano molto provati e a\équmoi,ovvero senza più forza e coraggio, infatti il loro qumoév, sede del dolore e della sofferenza, ha molto patito, e così dicendo, esso, definito a\ghénwr, cioè altero, orgoglioso, è finalmente rinfrancato e, persuaso dalle parole della dea, riprende vigore. In sette versi il termine qumoév compare ben quattro volte, ed una volta in un composto, l’unico dei poemi omerici a\équmov  nel senso di avvilito, scoraggiato, senza forze, ed in seguito nel senso di non passionale, senza collera  da cui, nel lessico greco si sviluppa l’astratto corrispondente  a\qumiéa, con il significato di mancanza di ardimento, viltà, attestato chiaramente in Erodoto  e in Ippocrate .

Da Erodoto ad Aristotele, attraverso le riflessioni ippocratee

In Erodoto qumoév assume una varia gamma di significati : da coraggio  a forza d’animo, da cura  a desiderio, infine a ira . Nel trattato ippocrateo sui climi, invece, si trova una chiara testimonianza dell’uso categoriale e classificatorio del  qumoév, in stretta relazione con le regioni geografiche e delle loro particolari caratteristiche climatiche. A proposito, infatti, degli scarti differenziali tra i vari popoli, Ippocrate afferma che la differenza tra Asia ed Europa era enorme e che l’Asia risultava più civile e gli uomini che la abitavano, in virtù del livello di civiltà raggiunto, erano più miti e più mansueti, ma al contrario non si potevano trovare presso di loro il valore andreiéon, la resistenza alla fatica, l’operosità e l’elemento irascibile, ovvero il qumoeideév.

Dei popoli asiatici Ippocrate sottolinea con risolutezza il netto contrasto tra la mancanza di coraggio e di ardimento ed i costumi più civili rispetto a quelli europei, affermando che le cause di ciò erano principalmente due : la sostanziale uniformità del clima che, non presentando notevoli metabolaié né verso il freddo, né verso il caldo, non produceva scosse alla mente e forti alterazioni del corpo, che conducevano all’attività, e le istituzioni politiche che, essendo tiranniche, costringevano gli uomini a vivere in una condizione di sudditanza e di dipendenza da un padrone, per cui essi non sarebbero stati in grado di manifestare uno spirito reattivo e bellicoso e non sarebbero, perciò, stati indotti a pensare alla guerra . Il clima, dunque, la  fuésiv , e le istituzioni, il noémov, interagivano a soffocare e a reprimere l’elemento del qumoeideév.  Dopo l’excursus scitico, quindi,  Ippocrate illustra le caratteristiche dei popoli europei, particolarmente soggetti, a differenza di quelli asiatici, a cambiamenti stagionali e climatici molto sensibili, violente calure, inverni rigidi, piogge abbondanti e siccità prolungate.

I caratteri tipici dei popoli che abitavano le regioni europee erano la selvatichezza,  a\égrion, la mancanza di socialità,  a\émeikton e l’irascibilità, o l’impeto dovuto al qumoévqumoeideév . L’analogia ippocratica è semplice: i mutamenti stagionali, tipici dell’Europa, producono selvatichezza ed impulsività e come l’indolenza asiatica nasce dall’uniformità climatica, la fatica che si sviluppa dalla necessità e dagli sforzi di adattamento ai cambiamenti, invece, genera atti di valore. E’, dunque, per tale motivo che gli Europei erano più combattivi, ma anche perché essi non risultavano soggetti a re e a regimi autoritari e dispotici, come gli Asiatici : i popoli indipendenti, infatti, agivano sempre di propria volontà ed affrontavano i pericoli a proprio vantaggio e così riportavano essi stessi il premio della vittoria. Se dominati, invece, gli animi, ridotti in condizione di schiavitù, si rifiutavano di correre rischi, e risulta, perciò, evidente come le istituzioni politiche, i noémoi, potevano sensibilmente influire sul valore. Nell’ultimo capitolo del trattato si possono leggere altre interessanti osservazioni: le popolazioni che si trovavano, infatti, a vivere in territori montuosi, aspri, elevati e ricchi d’acqua, che fossero periodicamente soggetti a mutamenti stagionali, erano per natura di grande corporatura, avevano cioè ei\édea megaéla, erano predisposti alla fatica e al valore, ed inoltre presentavano, in misura notevole, selvatichezza, a\égrion  e bestialità,  qhriwédev . Al contrario, quanti abitavano territori ricchi di prati, pianeggianti, con venti caldi, ricchi d’acqua stagnante e piovana, erano tendenzialmente più bassi, più sviluppati in larghezza, di colorito scuro e per natura meno portati al valore e alla fatica.

Seguendo, infine, il principio fondamentale, per cui l’aspetto ed i costumi dell’uomo erano conformi alla natura del territorio, alla conformazione delle regioni e all’azione del clima, Ippocrate rileva che dove il suolo era ricco d’acqua, con acque superficiali, calde d’estate e fredde d’inverno, fertile e con un buon clima, allora gli abitanti sarebbero stati portati all’indolenza e alla sonnolenza e avrebbero mostrato un animo vile e poco adatto alle arti. Dove, invece, il territorio era spoglio e aspro, afflitto dall’inverno e bruciato dal sole, gli abitanti, temprati dalle difficoltà, sarebbero stati, di conseguenza, duri, attivi, dal carattere orgoglioso, più vicino alla selvatichezza che alla mitezza,  più intelligenti riguardo alle arti e migliori in guerra, quindi più bellicosi .

Il medesimo concetto è fatto esprimere da Erodoto a Ciro, alla fine del IX libro delle Storie, quando, dovendo decidere riguardo alla proposta presentatagli di trasferire il popolo persiano dalla terra originaria, piccola e montagnosa, in altre migliori e più fertili, per ricavarne maggiore prestigio e ammirazione, Ciro rispose che tale progetto poteva anche esser realizzato, ma ammoniva che i Persiani si sarebbero trasformati da dominatori dell’Asia in dominati, poiché “da luoghi molli sono soliti crescere uomini molli, non è di una stessa terra produrre frutti meravigliosi ed uomini valorosi in guerra”. I Persiani dovettero, quindi, ricredersi, furono convinti dal saggio parere di Ciro e “preferirono dominare abitando una misera terra infeconda, piuttosto che essere ridotti schiavi di altri, coltivando, però, fertili pianure” . Platone, prendendo un vago spunto dalle riflessioni contenute nel trattato ippocratico, introduce nella Repubblica il tema etnografico, astraendolo, però, da una visione sistematica ed utilizzandolo, invece, nella discussione politico-filosofica sul modello ideale di stato. La convinzione è, infatti,  che in uno stato debbano agire le medesime proprietà generali e le forze di carattere morale che operano in ogni singolo individuo, quindi l’attenzione è decisamente dirottata proprio ad un abbozzo di individuazione del carattere distintivo dei popoli, in funzione della teoria più generale della tripartizione delle proprietà dell’anima individuale.

Prendendo le mosse dalle considerazioni di Ippocrate sulla necessità di esaminare tanto i mutamenti stagionali e le caratteristiche climatiche, quanto le istituzioni politico-istituzionali, l’interazione, cioè, fuésiv-noémov, per riconoscere i caratteri dei popoli dell’Europa e dell’Asia, Platone distingue sommariamente i popoli in base al carattere morale, ricalcando il modello ideale dell’anima, divisa in tre parti, come è noto, ognuna delle quali possiede delle specifiche proprietà (passioni elementari per la cosiddetta proprietà appetitiva, coraggio per la proprietà irascibile ed intelletto per quella razionale). Le proprietà generali, ei\édh, che caratterizzano le tre classi che compongono la città ideale, produttori, guardiani, o guerrieri, e governanti-filosofi, si ritrovano nell’individuo, all’interno della sua anima, per cui risulta necessario riconoscere che ei\édh kaiè h\éqh propri di ogni individuo sono anche quelli della  poéliv e, come afferma esplicitamente Platone, sarebbe ridicolo se alcuno pensasse che non dai singoli individui fosse nato l’elemento irascibile, il qumoeideév , per coloro che hanno tale fama, cioè i popoli della Tracia e della Scizia ed in genere tutti i popoli del nord ; oppure quello desideroso di apprendere, filomaqeév , tipico della Grecia, o quello dedito al guadagno, filocrhématon, riscontrabile presso i Fenici e gli Egiziani .

L’elemento irascibile, dunque, fondamentalmente relativo all’ardimento e al valore, già tipico dei popoli europei, tra i quali si devono annoverare anche i Greci, in Ippocrate, è in Platone attribuito con decisione ai popoli del nord, sempre, però, con la consapevolezza che i Greci sanno fare un uso razionale, più equilibrato di esso, e questo passaggio costituisce un’importante connotazione etnografica, destinata ad esercitare un peso considerevole nella tradizione successiva.

Platone utilizza in modo strumentale alla propria teoria politica anche l’elemento climatico, per giungere all’elaborazione di una chiara definizione dell’equilibrio stagionale che si adatta coerentemente con l’intelligenza e con la volontà . L’associazione dei caratteri dei popoli alla dottrina della tripartizione dell’anima, evidentemente doveva condurre ad una prima approssimativa, ma esplicita, scansione gerarchica tra i popoli stessi, poiché se i Greci rappresentano la proprietà razionale e verrebbero, grosso modo, a coincidere con l’azione equilibratrice di tale facoltà, allora corrispondono logicamente ai filosofi dell’utopica politeiéa platonica. Egiziani e Fenici, per la loro materialità, rappresenterebbero la proprietà appetitiva e desiderativa, propria dei produttori, e quindi i popoli del nord avrebbero una loro naturale corrispondenza nell’elemento irascibile, proprio, invece, dei guerrieri dello stato. In Platone tale gerarchia si deduce solo dal confronto con la teoria etico-politica e non si presenta affatto come una precisa antropologia.

Una classificazione di tipo gerarchico maggiormente definita compare solo con Aristotele, il quale nella Politica si dimostra un sapiente elaboratore delle teorie ippocratiche e delle intuizioni platoniche, quando illustra la natura dei caratteri etnici, in funzione del concetto generale, ma soprattutto etico, della mesoéthv  . I popoli, infatti, che abitano nelle regioni fredde ed in Europa, afferma Aristotele, sono pieni di energia e di qumoév , ma piuttosto carenti in intelligenza,  diaénoia, e in abilità tecnica, teécnh, per cui vivono più liberamente, ma senza un’organizzazione politica, a\poliéteuta , ed incapaci di dominare i popoli vicini . I popoli dell’Asia, invece, hanno grandi doti intellettuali e tecniche, che hanno permesso loro di realizzare istituzioni civili, ma sono privi di coraggio, a\équma , e quindi si trovano costantemente in soggezione e sotto il dominio altrui .

Solo la nazione greca, situandosi geograficamente nel mezzo w|ésper meseuéei kataè  touèv toépouv, partecipa di ambedue i caratteri e, quindi, è al tempo stesso una stirpe coraggiosa, e\énqumon, piena di qumoév , ed intelligente, dianohtikoén  per cui conduce una vita libera, come i popoli del nord, ma ha anche la migliore organizzazione politica, quindi supera questi ultimi e anche i popoli dell’Asia, così si trova nella condizione di dominare e non di subire, anzi, Aristotele afferma che la Grecia può dominare “tutta l’umanità se solo trova una forma unitaria di organizzazione statale”.

La conclusione del passo risulta molto significativa, in quanto l’analisi etnografico-antropologica serve all’esemplificazione di un modello etico-politico delle qualità morali dei singoli appartenenti ad una comunità, infatti si sottolinea la necessità che quanti intendano seguire l’orientamento del legislatore della poéliv verso la virtù debbano essere coraggiosi ed intelligenti al tempo stesso, e questo è un ulteriore sviluppo concettuale rispetto al pensiero espresso da Platone .

L’antitesi ippocratica Europa / Asia, disposta lungo una linea nord-sud, a cui la riflessione di Platone faceva riferimento, con il cenno alla posizione privilegiata dell’Attica, si amplia nella Politica aristotelica, in corrispondenza proprio della definizione della  mesoéthv, poiché, come acutamente osservato, “la virtù individuale, identificata nell’Etica nicomachea nell’equilibrio fra due estremi ugualmente negativi per eccesso o per difetto, si proietta qui su scala cosmica, nell’idea che la nazione greca deve sapere mescolare in giusta proporzione elementi che gli altri popoli posseggono in misura unilaterale : e cioè una certa dose di impetuosità e coraggio – che non degenerino in irrazionale irruenza – e insieme un’intelligenza che non si realizzi in mera astuzia, ma si indirizzi al buon uso della libertà” . La medietà morale si innesta in un contesto geografico e la centralità spaziale occupata dal popolo greco, rispetto alle popolazioni del nord e a quelle del sud, permette di delineare un insieme ordinato secondo uno schema che dispone una serie di coordinate climatiche, etico-comportamentali e politiche.

I popoli dell’Europa settentrionale vivono dunque in un clima freddo, sono portati alla libertà e mostrano ardimento e coraggio, sono scarsamente intelligenti e difettano di una solida organizzazione politica stabile che garantisca loro la possibilità di dominare sugli altri popoli. Le genti che abitano le regioni dell’Asia e dell’Africa in un clima caldo sono sostanzialmente imbelli, poco disposte all’azione, mostrano una viva intelligenza e hanno ridotte capacità politiche, in quanto le loro istituzioni ne soffocano la libertà e l’intraprendenza. Il popolo greco, invece, vivendo in un clima temperato ed equilibrato, mostra una perfetta corrispondenza tra l’elemento emotivo e quello razionale, è coraggioso e libero, ma anche intelligente e riflessivo, ha una sicura organizzazione politica e tutto ciò lo conduce, in teoria, ad aspirare legittimamente al dominio universale .

Il qumoév, dunque, caratterizza distintamente i popoli nordici, ma se si leggono alcune riflessioni aristoteliche relative alla relazione intercorrente tra la natura del sangue ed il carattere degli animali, nel trattato biologico Parti degli animali, l’impetuosità di animali come il cinghiale e il toro è resa proprio con tale termine. Aristotele afferma che nel mondo animale il sangue può essere più sottile o più denso, più puro o più torbido e, così, più freddo o più caldo. Gli animali che hanno il sangue caldo e denso, in virtù di tali caratteristiche, producono una maggiore forza, si mostrano di indole ardente e sono spesso eccitabili alla collera. Essa, infatti, produce a sua volta calore, agendo sulle fibre più solide e terrose, che surriscaldano l’organismo, perciò animali a sangue caldo e spesso, come, appunto tori e cinghiali, sono pieni di irruenza, ovvero di qumoév.

Gli animali, invece, che hanno il sangue privo di fibre solide, ma in cui è prevalente l’elemento acquoso, freddo e leggero, mostrano una più marcata sensibilità ed una più fine intelligenza. Gli animali con sangue freddo e fluidi organici più rarefatti, leggeri e puri sono, però, più paurosi di quelli sanguigni : hanno sì uno spirito intelligente e pratico, come le api e le formiche, ma mostrano una maggiore predisposizione alla paura, che, infatti, di per sè raffredda, ed animali come, per esempio, il cervo subiscono sotto l’azione del freddo il congelamento del loro sangue troppo acquoso, e perciò si spaventano, rimangono immobili e, spesso, mutano colore . Il cinghiale, dunque, conseguentemente alla natura del suo sangue, è un animale distinto dall’impetuosità e dall’irruenza, ma anche dalla mancanza di intelligenza  e il cervo, invece, risulta caratterizzato dall’intelligenza, ma anche dalla paura e dalla codardia .

Il quadro aristotelico, strettamente biologico, viene completato con coerenza se si pensa che la posizione mediana tra gli animali con il sangue caldo e denso, impetuosi, ma stupidi, e quelli con il sangue freddo e rado, paurosi, ma intelligenti, è occupata dall’uomo, il quale, tra tutti gli animali, è in una posizione di equilibrio ideale, in quanto, avendo il sangue più rado è il più intelligente, ma temperando il calore del cuore col freddo fluido del cervello, non è né troppo irascibile, né troppo pauroso .

Risultano, perciò, evidenti le notevoli analogie con le riflessioni contenute nel precedente passo della Politica : la portata di tali considerazioni, nel pensiero aristotelico, sarebbe stata di certo molto più grande se le classificazioni etnologiche, in funzione dei climi e dei caratteri, fossero state messe in stretta relazione con la sistemazione operata in base alle qualità del sangue animale, ma questo collegamento diretto Aristotele non l’ha mai fatto . Il quadro delineato da Aristotele, nella sua eterogeneità, non è, dunque, propriamente etnografico o antropologico in senso stretto, ma, ai fini dalla presente analisi, mette in evidenza che il  qumoév contraddistingue tanto gli animali a sangue caldo e spesso nei trattati di biologia, quanto i barbari del settentrione, nelle descrizioni di carattere etnografico.

La teoria del qumoév in Posidonio d’Apamea. Un esempio di antropologia ellenistica

Posidonio incentrò principalmente la propria attenzione sull’analisi delle caratteristiche antropologiche dei Celti e dei Cimbri e cercò di comporre un quadro scientifico e rigoroso, che vede nel  qumoév il carattere principale e distintivo dei popoli nel nord Europa che si inseriscono naturalmente all’interno della teoria del comportamento umano in generale elaborata ed esposta nel trattato filosofico Periè paqw%n, sufficientemente attestato nel commentario di Galeno De Placitis Hippocratis et Platonis e ricostruito, nella sua struttura fondamentale, dal  Reinhardt . Posidonio continuò ed approfondì la polemica paneziana rivolta contro la psicologia e l’antropologia dell’antica Stoà e, soprattutto, del pensiero di Crisippo, che aveva negato con forza l’esistenza di una componente alogica e arazionale dell’anima, riducendo sistematicamente le passioni a puri errori di giudizio della ragione, sulla scia dell’insegnamento socratico.

Posidonio reagì rifacendosi alla psicologia di Platone e marcando con evidenza la natura di una vita istintiva irrazionale dell’anima. Nell’uomo, secondo Posidonio, dovevano esistere tutte le forze elementari vegetative ed animali, ma anche la sua vita psichica doveva presentare delle facoltà che corrispondevano agli istinti degli animali e questa asserzione, evidentemente, contrastava  con la dottrina stoica che assimilava l’organo centrale dell’anima al puro  loégov  e considerava l’affezione, definita come un movimento alogico del loégov , un semplice processo intellettivo. Veniva, quindi, accettata la definizione classica stoica dell’affezione come movimento irrazionale dell’anima che costituisce un istinto che oltrepassa i suoi naturali confini, ma non la si considerava più un giudizio logico, poiché essa risultava, invece,  dal conflitto di due forze, in cui una vita istintiva, propria di una facoltà irrazionale, si affermava autonomamente contro il comandamento del loégov.

Tutte le questioni etiche, perciò, venivano fatte dipendere dalla comprensione delle affezioni, che includono il piacere, il dolore, il desiderio e la paura  ed esse non erano più definite come errori della ragione, ma come movimenti di forze alogiche. Come in precedenza Platone, Posidonio concepì tre distinte facoltà dell’anima : quella razionale, logistikhé, quella irascibile-competitiva, qumoeidhév e quella appetitiva, e\piqumhtikhé . Di queste facoltà, le ultime due sono irrazionali  ed ognuna ha il suo proprio naturale obiettivo : la ragione cerca la sofiéa, l’a\gaqoén e il  kaloén, la capacità irascibile-competitiva il potere e la vittoria e quella appetitiva, invece, il piacere .

Di grande portata risulta la convinzione di Posidonio, diretta contro l’intellettualismo di Crisippo, che è proprio dalle due facoltà irrazionali  che sorgono tutte le passioni e che la causa dell’eccedere i confini e la misura stabiliti dalla ragione non può essere ricercata nella ragione stessa, ma in facoltà o capacità irrazionali poste al di fuori della ragione : ovvero  duénamiv qumoeidhév e la  duénamiv e\piqumhtikhé. Crisippo affermava, infatti, che l’anima umana, guidata dall’h|ghmonikoén razionale, era naturalmente dotata di una tendenza al bene, ma se ciò era vero, allora, non si poteva comprendere come gli influssi negativi esterni potevano corrompere e guastare l’anima. Era, cioè, necessario concepire una disposizione della natura umana a soggiacere alle affezioni ed in generale alle sollecitazioni del mondo esterno e Posidonio trovò proprio nelle due forze irrazionali dell’anima, sollecitate occasionalmente dai sensi, l’elemento che interagiva a deviare la ragione, o la capacità razionale, dal giusto obiettivo, dal teélov, e a farla cadere in errore. Il compito dell’uomo rimaneva, dunque, chiaro : rafforzare la propria ragione, intesa come una sorta di daiémwn buono, in modo da potere sempre vincere e dominare con sicurezza le forze irrazionali che non provengono dall’esterno, ma come un daiémwn cattivo, sono già in lui . Secondo la teoria posidoniana, gli impulsi all’azione possono sorgere sia da un giudizio della capacità razionale che da un moto delle capacità irrazionali , infatti, le facoltà dell’anima sono in competizione tra di loro, il potere di quelle irrazionali è molto forte ed il conflitto tra la capacità logistikhé e le altre due può portare l’uomo al totale controllo delle passioni, come, al contrario, alla completa sottomissione da parte di esse. Questo concetto è illustrato da Posidonio grazie al ricorso ad un’immagine platonica : le tre forze dell’anima, infatti, sono rappresentate come un auriga, quella razionale, e come due cavalli, quella irascibile-competitiva e quella appetitiva, e queste ultime corrono insieme, sotto il controllo dell’auriga.

La facoltà irrazionale, originariamente debole, ma nel pieno della sua forza e consapevolezza solo all’età di quattordici anni, guida le facoltà irrazionali, finché esse, però, ubbidiscono alla ragione in ogni cosa, poiché le capacità irrazionali possono anche rifiutarsi di ubbidirle e, come dei cavalli senza più freno, possono correre via e non sottostare più alla guida dell’auriga. Questa è chiaramente la condizione in cui si viene a trovare l’anima, quando la ragione perde il controllo delle capacità irrazionali e cade preda delle passioni che si sostituiscono alla facoltà razionale nella conduzione dell’anima stessa e la conducono inesorabilmente alla rovina .

Posidonio, continuando l’allegoria, credeva che la ragione si rafforzasse per mezzo della conoscenza teoretica, l’e\pisthémh, esattamente come un auriga impara i principi fondamentali per guidare il carro, poiché la virtù della facoltà razionale è sempre la conoscenza della realtà, che deriva da un’istruzione razionale, ma le capacità irrazionali, invece, non potevano essere guidate ed educate direttamente e razionalmente, dal momento che esse sono incapaci di conoscenza, quindi dovevano di necessità essere guidate da un altro elemento, tale da condurle progressivamente ad uno stato di sottomissione al comando della facoltà razionale, corrisponendo, così, in maniera adeguata alla loro stessa natura, e questo elemento è individuato nell’e\qismoév che si manifesta come una sorta di educazione delle capacità irrazionali, per mezzo di pratiche alogiche, ripetute ai fini dell’addestramento, come per esempio, la musica ed il ritmo . L’ e\qismoév si pone, dunque, come un avviamento alla sottomissione dell’irrazionale alla componente logica .

Posidonio, esaltando la vita istintiva ed irrazionale dell’anima, avvicina in modo significativo il mondo umano a quello degli animali, infatti, l’e\piqumhtikoén, facoltà appetitiva elementare, negli animali è limitata alla diretta tendenza a nutrirsi e a procreare, nell’uomo è orientato soprattutto al soddisfacimento dei piaceri, negli animali superiori si manifesta il qumoév, l’aggressività, che nell’uomo è la tendenza a vincere e a prevalere. Il qumoeidheév, insieme agli impulsi dell’elemento appetitivo, si manifesta nell’uomo fin dalla fanciullezza, prima che si sia destato il loégov e in seguito rimane costantemente anche nell’uomo adulto, mantenendo il proprio carattere distinto ed indipendente che deve essere, però, regolato in modo da evitare che la vita dell’uomo si riduca ad un’istintività sfrenata, in cui le affezioni progressivamente prendono il sopravvento sul logistikoén e mettono l’uomo in condizione di perdere il dominio di sé .

Una sola, esplicita, testimonianza attesta, inoltre, con chiarezza che la psicologia, fondata sull’azione delle tre dunaémeiv, doveva avere, nel complesso dell’elaborazione filosofico-antropologica di Posidonio, una stretta correlazione con i fattori di carattere climatico-ambientale. Galeno afferma, infatti, che, a proposito dei fenomeni relativi alla fisiognomica, Posidonio ragionevolmente, ei\koétwv, sosteneva che tra gli animali e gli uomini quanti erano eu\ruésterna, cioè dal torace ampio, e qermoétera, più caldi, per natura erano anche qumikoétera, ovvero più ardimentosi, mentre quelli platuiéscia, dai fianchi larghi, e yucroétera, più freddi, erano tutti deiloétera, cioè più vili . Il riferimento specifico all’importanza delle aree geografiche e dei climi, permette di delineare una successione causale di questo tipo : le affezioni ed il temperamento seguono le disposizioni fisiche del corpo e la sua natura, ma tali disposizioni e caratteristiche subiscono l’influenza esercitata dal clima e dalle condizioni ambientali e geografiche, quindi la localizzazione geografica e la tipologia climatica influiscono necessariamente sulla determinazione del carattere. Insieme all’educazione, dunque, l’ ei\qismoév, un altro decisivo elemento che plasma e determina il carattere è, perciò, la natura e, più precisamente, l’insieme delle condizioni climatico-ambientali.

La convinzione posidoniana che l’indole degli uomini viene condizionata e modificata “secondo i luoghi”, unita alla citazione aristotelica, relativa alle qualità del sangue, conduce alla determinazione di un quadro fortemente definito dalla presenza di concezioni fisiognomiche, come il frammento citato da Galeno conferma esplicitamente. Nell’esposizione della teoria posidoniana delle cinque zone climatiche, inoltre, si può trovare un altro riferimento al condizionamento ambientale operato su alcuni popoli .

Dopo la descrizione della divisione delle zone determinate in relazione ai corpi celesti, Posidonio spiega che esse sono riferite anche  proèv taè a\nqrwépeia, cioè anche in relazione alla geografia umana, definita da fattori, quali il clima, la temperatura e la topografia. Oltre alle cinque zone climatiche astronomiche esistono anche due zone subtropicali con caratteristiche proprie e ben definite : esse giacciono sotto i tropici e sono tagliate in due da ciascun tropico e il sole risulta perpendicolare per circa mezzo mese ogni anno, inoltre, tali zone sono molto secche e sabbiose e producono solo silfio e bacche e frutti rosso-fuoco. Non vi sono montagne contro le quali possano urtarsi le nuvole per produrre la pioggia e l’irrigazione dei fiumi è molto scarsa, così il risultato, in un ambiente secco e povero d’acqua, è una popolazione con precisi tratti somatici, tipicamente negroidi : ricci capelli lanosi, labbra tumide e sporgenti e nasi schiacciati. Questa è la stretta regione sub-tropicale in cui vivono gli Ittiofagi .

Il passaggio dalle annotazioni topografiche alla breve descrizione dei caratteri fisiognomici del popolo sub-tropicale è significativamente indicato con l’espressione dioéper, a testimoniare il nesso di causalità. Un altro riferimento può essere utile: all’interno della critica straboniana, rivolta contro la divisione in continenti che Posidonio proponeva accanto a quella in zone latitudinali, trova spazio anche un accenno a questioni di geografia antropica. A proposito, infatti, proprio della divisione dei continenti, che si sovrappone a quella in zone, Posidonio afferma che gli Indiani differiscono dagli Etiopi africani, sebbene siano alla medesima latitudine, e quindi nella stessa zona climatica, e mostrano corpi più sviluppati fisicamente, eu\ruésteroi, e meno bruciati dalla secchezza dell’atmosfera.

Anche in questo caso appare un nesso tra posizione geografica e caratteristiche fisiche, in un tentativo di coordinare elementi geografico-climatici con caratteri fisico-etnografici, poiché, secondo Posidonio, il sole abbandonerebbe più in fretta la regione del suo sorgere e ritornando indietro scenderebbe sulla terra, asciugandola in modo molto più intenso. Così di conseguenza l’India sarebbe più umida del Nord-Africa, secco e arido, e presenterebbe una grande quantità di rigogliosa vegetazione e, parallelamente, popoli più floridi e sviluppati ; mentre  l’Etiopia sarebbe, senza dubbio, meno fertile . Tale concezione mostra, però, un punto debole, in quanto non tiene conto della spiegazione tradizionale, secondo la quale è proprio la maggiore vicinanza del sole che causa l’aridità dell’Etiopia ed inoltre non si accorda con l’idea stoica che il sole è il dispensatore di ogni vita, per cui una maggiore vicinanza del sole causa, di conseguenza, una maggiore fertilità, cosa che per l’Etiopia non è vera. L’India, dunque, più umida e fertile non può essere più lontana dal sole dell’Etiopia, e tuttavia deve risultare meno esposta alla sua azione inaridente .

Una esplicita testimonianza dell’importanza che per Posidonio doveva rivestire l’influenza climatica ed ambientale sulle popolazioni proviene ancora da Strabone, il quale critica apertamente lo storico e filosofo d’Apamea, contestandogli che non la proénoia e neppure le condizioni climatiche, determinate direttamente dalla kraésiv  e coordinate dalla provvidenza, possono provocare le differenze psichiche e culturali tra gli uomini, ma, invece, le diverse situazioni ambientali in cui l’uomo si trova a vivere.

La pratica, cioè, l’attitudine alle teécnai, l’esperienza e le caratteristiche di comportamento in genere contano di più della disposizione naturale e delle influenze climatiche ; infatti, sostiene Strabone, è con l’esercizio e l’abitudine che gli Ateniesi, col tempo, sono diventati amanti delle lettere, mentre gli Spartani e i Tebani no, e allo stesso modo non è per predisposizione naturale, ma a\skhsei kaiè e\éqei che i Babilonesi e gli Egiziani sono amanti delle scienze, come i cavalli che, se diventano eccellenti, non è per la località in cui vivono, ma per la pratica  a cui sono stati sottoposti .

Tale orientamento nasce all’interno di una consolidata tradizione etnografica in ambiente greco, in cui i concetti fondamentali che l’analisi descrittiva dell’ i|storiéh ionica aveva definito, senza, però, approfondire i nessi causali , e il trattato ippocratico  Periè a\eérwn aveva, invece, disposto in un sistema organico, individuando i rapporti di causa e di effetto tra fattori climatici e caratteri fisici e disposizioni comportamentali, diventano patrimonio stabile della cultura generale del IV secolo a.C. e presenze costanti nelle monografie etnografiche d’età ellenistica. L’interazione tra condizioni climatiche e caratteristiche psico-fisiche, con l’individuazione di un preciso rapporto di causa e di effetto, è presente in generale come elemento dell’antropologia filosofica , fa parte della conoscenza comune di ogni persona colta  ed è documentabile negli storiografi post-tucididei . Il diplomatico Megastene, nei suoi   |Indikaé, sostiene che, accanto all’aria pura, è l’acqua finissima, u|édwr leptomereéstaton, la causa della particolare intelligenza degli Indiani ed il clima favorevole, come permette la rigogliosa crescita di alberi e vegetazione e rende la terra ricca e fertile, allo stesso modo contribuisce alla vigoria della costituzione fisica degli Indiani e alla loro propensione alle teécnai .

Il razionalismo di Agatarchide di Cnido, invece, che a lungo aveva viaggiato tra gli Etiopi del Mar Rosso,  relegava tra le risibili paure dei fanciulli l’istintiva diffidenza che l’aspetto di un uomo etiope ispirava ai Greci, poiché la cultura ellenistica spiegava scientificamente che la pelle nera era dovuta alla forte irradiazione solare, propria delle terre meridionali, e quindi non doveva essere oggetto di un generale discredito, fondato sul pregiudizio . E’ da alcuni riferimenti testuali, dunque, e dalla critica diretta, rivolta da Strabone, ad un sistema che, sulla scia delle riflessioni esposte nel trattato ippocratico sui climi e di una certa diffusa tendenza dell’etnografia ellenistica, intendeva riconoscere nelle manifestazioni psico-fisiche dei popoli un’influenza esercitata dal clima, che si può desumere un abbozzo di antropogeografia posidoniana.  Tutta questa elaborata tradizione culturale greca, per concludere, veniva quindi a costituire un patrimonio inestimabile di riferimenti e di confronti, ai quali anche Vitruvio, il tecnico “umanista” dell’architettura romana, attinse ampiamente con una particolare attenzione rivolta alla dottrina posidoniana che, come è noto, aveva esercitato una significativa influenza su molti intellettuali a Roma per l’arco di tutto il I secolo a.C.