Quaranta: L’empatia: da Novalis ai neuroni specchio

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L’empatia: da Novalis ai neuroni specchio
di Antonio Quaranta

Abstract
Quante volte abbiamo pronunciato o sentito pronunciare il termine empatia? Certamente innumerevoli volte e nelle occasioni più disparate: in ambiti scientifici così come in quelli profani, in contesti clinici e durante conversazioni fra amici; e ogni qual volta la parola empatia entra in scena, anche se per la centunesima volta, l’aria si fa più densa, l’atmosfera cambia e abbiamo l’impressione tutto a un tratto che la magia che porta con sé questo termine antichissimo ci avvolga e avvicini nuovamente le nostre menti al nostro corpo lasciando altresì dietro di sé la tanto conosciuta “incomprensibile incomprensibilità“. Noi siamo nati con l’empatia addosso, la viviamo tutti i giorni ma abbiamo molte difficoltà a immaginarla, rappresentarla, spiegarla. Quanto meno come nozione, siamo in grado però di esprimerla, rievocarla con e nel nostro corpo attraverso l’arte in tutte le sue manifestazioni da quelle più basiche a quelle più complesse. Usciamo dal cinema con le lacrime agli occhi per un film commovente e dallo stadio con i nervi tesi per una partita persa. Sappiamo benissimo cos’è l’empatia eppure quando qualcuno ci chiede di spiegarla ci sentiamo a disagio perché dalla nostra bocca il più delle volte escono parole banalizzanti e non sufficienti. Si tende spesso a definire una persona empatica quando è accogliente, ascolta l’altro, lo capisce e lo sostiene emotivamente. Come se l’empatia fosse un processo del tutto consapevole e intenzionale. In questo scritto non si parlerà dell’empatia delle persone buone, disponibili e sensibili; in questo scritto si parlerà dell’empatia di tutti, di quell’affascinante e fino ad ora inspiegabile processo che ci permette di vivere con gli altri e che quando si rompe o funziona male crea seri problemi alla convivenza umana. Partendo dalle radici storiche del termine empatia e passando per quelle teorie che ne hanno permesso la sopravvivenza, si arriverà alle mirabili e utilissime ipotesi odierne che hanno riavvicinato per l’ennesima volta nella storia dell’uomo la filosofia e le neuroscienze.

Le radici storiche dell’empatia

Nel linguaggio comune l’empatia è la capacità del soggetto di immedesimarsi, di provare le stesse emozioni e stati d’animo di un’altra persona fino a “mettersi nei suoi panni”. In ambito psicologico e psicopatologico la nozione di empatia ha più o meno conservato l’accezione comune del termine seppure con qualche differenza sostanziale a seconda della lettura adottata dalle relative correnti di pensiero. Quindi risulta molto difficile collocare storicamente il concetto di empatia se prima non si definisce quale senso gli si vuole assegnare. Operazione complessa, questa, perché la nozione di empatia è stata utilizzata in diverse aree di studio (non solo di stampo psicologico) e conseguentemente ha assunto di volta in volta significati molto distanti fra loro.

Accettando il fatto che l’empatia non possa essere un costrutto unitario e che comprenda in sé molte dimensioni o livelli interconnessi (affettivo, cognitivo, sociale), come un riflesso della sua complessità, non dobbiamo perciò rinunciare al tentativo di una maggiore chiarificazione epistemologica.

Il suo primo utilizzo è comunemente attribuito allo scrittore tedesco Herder (Vom Erkennenn und Empfinden, Werke, ed. Suphan, VIII) e al poeta Novalis (1798) nei Discepoli a Sais, entrambi esponenti del romanticismo europeo. In questi due autori il concetto di empatia ha una valenza eminentemente estetica ed esprime l’immedesimazione totale del soggetto nella vita della natura, concepita, romanticamente, come essere vivente spirituale.

Ripresa poi da Vischer, (Das optische Formgefühl. Ein Beitrag zur Aesthetik, 1873; rist. in Drei Abhandlungen zum ästhetischen Formproblen, 1927) è in quella branca della filosofia denominata ‘Estetica’ che la nozione di empatia comincia ad assumere una maggiore strutturazione di senso: ecco, per esempio, che l’individuazione kandinskyana di una dimensione spirituale dell’arte, “dove lo spettatore si immedesima con l’opera”, e la suggestione di W. E. Smith, in quel suo considerare la fotografia “una debole voce […] ma qualche volta può richiamare i nostri sensi verso la coscienza, provocare emozioni così forti da fungere da catalizzatori per il pensiero”, trovano una chiave di lettura in quella esperienza empatica delle forme articolata nelle formulazioni di Theodor Lipps[1] (Aesthetik, 2 voll. 1903).

Secondo Lipps il contenuto dell’oggetto estetico è sempre contenuto psichico: è l’osservatore dell’opera d’arte ad attribuire a quest’ultima tutta la sua carica emotiva; in una sorta di proiezione, il soggetto dona all’oggetto inanimato la sua anima, il proprio stato d’animo, “perciò avviene che i colori per me non sono semplici colori: giallo, rosso, blu, sono al contempo qualcosa di serio o allegro, tranquillo o vivace, freddo o caldo, in breve qualcosa di simile a una personalità”. L’empatizzare del soggetto con l’oggetto diventa nella lettura lippsiana un <<dare alle cose insensate senso e passione>>, come diceva Vico, l’entrare (come segnalato dal prefisso ein del termine originale tedesco Einfhulung, tradotto poi da Titchener 1909 in empathy) di questo in quello, in modo che “l’oggetto, di per sé inerte e freddo, viene animato, riscaldato e umanizzato dalla vita sentimentale dell’artista, che lo trasforma in opera d’arte” (Abbagnano cit. in Bolognini).

La teoria elaborata da Lipps è considerata da Arnheim (Psychological Review, 1949, vol. 56, pp. 156-71)  una mera estensione delle teorie associazionistiche di Berkeley e Darwin applicata al concetto di empatia.

Anche Lipps, come Darwin non intuì mai la relazione intrinseca tra espressione corporea e stato d’animo; pur ammettendo che si trattasse di  “due cose che si corrispondono, o che si combinano per necessità, l’una essendo data immediatamente nell’altra e con l’altra” continuò, come i suoi predecessori a considerare tale “necessità” di natura puramente causale, negando recisamente che la relazione tra l’espressione somatica dell’ira e l’esperienza psichica della persona irata possa venir descritta come “associazione di similarità, identità, corrispondenza”(Lipps cit. in Arnheim 1949).
Tuttavia è in ambito psicologico che Lipps, nonostante le limitazioni legate alla derivazione della sua teoria, compie una vera e propria rivoluzione del termine empatia operando il passaggio dal contesto estetico alla nozione impiantata sul terreno della conoscenza e della comunicazione intersoggettiva. Infatti l’autore, introducendo il concetto di imitazione interna (Nachahmung) riesce ad estendere la relazione empatica soggetto-oggetto al rapporto soggetto-soggetto: secondo la sua concezione l’uomo è portato ad imitare le azioni e gli atteggiamenti altrui e nel far questo non solo riproduce gli aspetti manifesti ma anche le emozioni che li accompagnano: ed è in questo modo che riusciamo ad immedesimarci nello stato d’animo altrui fino a metterci nei suoi panni. Ripercorrendo cioè realmente o idealmente i movimenti altrui sarebbe quindi possibile “sentire” ciò che l’altro sente e proiettarci in lui, fino a diventare “uno” con l’altro.

Questo aspetto di fusionalità della relazione empatica è del tutto assente nel pensiero di Dilthey[2], in cui la nozione di empatia si erge a rango di metodo conoscitivo dell’altrui esperienza, abbandonando definitivamente quello stile mentale romantico che non teneva in gran conto la separatezza del soggetto dagli oggetti.

Infatti la teorizzazione di Dilthey (1883 Introduzione alle scienze dello spirito) prende le mosse dalla fondamentale distinzione tra scienze umane e scienze della natura: le prime hanno come oggetto di indagine l’uomo nei suoi rapporti sociali, le seconde studiano un complesso di fenomeni esterni all’uomo. Il rapporto che si viene quindi a stabilire fra il soggetto e l’oggetto dei due ambiti di ricerca è sostanzialmente diverso e conduce perciò a due atteggiamenti altrettanto differenti: mentre il rapporto con la natura è un rapporto tra elementi estranei, quello con il mondo umano è un rapporto immediato in cui il soggetto conoscente ne è parte integrante. La conoscenza dei processi naturali avviene attraverso la percezione di dati esterni, al contrario, la comprensione degli altri uomini è data dall’esperienza interna senza alcuna mediazione concettuale. Questa esperienza interna, che poi è quella con la quale l’uomo coglie se stesso è definita da Dilthey Erlebnis (esperienza vissuta, coscienza immediata di uno stato interiore) e costituisce la “fonte” della comprensione quale mezzo conoscitivo delle scienze umane.

Questa distinzione è stata ripresa in seguito da Jaspers (1913 Psicopatologia Generale Tr. it., Il Pensiero Scientifico, Roma, 1964) in ambito psicopatologico per descrivere quel metodo conoscitivo che permetterebbe allo psicopatologo di comprendere empaticamente il paziente senza compiere alcuna interpolazione: «Quando nella nostra comprensione i contenuti dei pensieri appaiono derivare con evidenza gli uni dagli altri, secondo le regole della logica, allora comprendiamo queste relazioni razionalmente (comprensione di ciò che è stato detto); quando invece comprendiamo i contenuti delle idee come scaturiti da stati d’animo, desideri e timori di chi pensa, allora comprendiamo veramente in modo psicologico o empatico (comprensione dell’individuo che parla)».

L’empatia nel movimento fenomenologico

Il tema dell’empatia risulta centrale nel pensiero di Husserl laddove il filosofo rende oggetto delle sue analisi fenomenologiche la costituzione del  rapporto del soggetto con i suoi simili. Il quesito che si pone l’Autore è banale e complesso a un tempo: <<in che modo io ho esperienza degli altri? Cosa accade quando incontro un altro soggetto diverso da me? Su quali basi avviene questo incontro?>> La risposta è data su due piani di analisi differenti: il primo è quello che considera l’altro una mera cosa naturale, cosa fra le cose, e come tale oggetto delle scienze della natura; l’altro piano offre una modalità di analisi diversa che rispetta l’esistenza autonoma e propria di soggetti-io che condividono con me un “mondo circostante comune”[3] e come tali sono in relazione con oggetti con i quali anch’io sono in relazione. “Ogni io può diventare, per sé e per altri […] soltanto quando la comprensione stabilisce la sua relazione con un mondo circostante comune”[4]. Secondo questa lettura l’uomo vive più negli altri che in se stesso, più nella collettività che come singolo individuo, ragion per cui buona parte delle componenti di fondo che sono alla base della struttura comunicativa hanno la loro radice nell’originaria capacità comprensiva.

Ho esperienza degli altri non solo in quanto oggetti mondani, ma anche in quanto soggetti che contribuiscono quanto me alla costituzione del mondo intersoggettivo: “l’altro, per il suo senso costitutivo, rinvia a me stesso”[5], pur non rispecchiandosi propriamente.

È su questo duplice livello di analisi che Husserl intende chiarire la struttura dell’esperienza trascendentale di un io estraneo, le condizioni di possibilità e i modi di questa esperienza. Duplice in quanto l’oggetto di analisi varia col variare del ruolo assunto dalla relazione empatica: ruolo fondativo e insieme fondante. Nel primo caso l’indagine porta all’analisi della soggettività in quanto Wirsubjektivität e quindi alla regione dell’altro. L’analisi sarà volta a chiarire tutto ciò che deve il proprio senso all’esistenza di una relazione empatica: pensiamo alle comunità spirituali, alle scienze, alle arti, alla morale, ossia a tutte quelle sfere d’indagine che rimandano alla comunità come elemento su cui si fondano. Nel secondo caso, invece, diventa centrale la valenza fondante di questo atto e tutte le ripercussioni che esso ha sulla costituzione stessa della soggettività. Quindi  in che modo la relazione empatica influisce sulla storia del soggetto empatizzante modificando il suo orizzonte mondano.

Si tratta di capire in sostanza come possa un soggetto, a partire da se stesso, cogliere l’altro come un soggetto. Quando percepiamo il corpo fisico dell’altro percepiamo, insieme a questo, anche il suo corpo vissuto: questo grazie a quella che Husserl definisce appercezione analogica[6]. Per cui sono presenti elementi direttamente percepibili che rimandano ad altri percepibili solo secondariamente perché appunto non presenti. L’appercezione è un anticipazione di un qualche cosa che si presume dovrebbe essere ma di cui in realtà non si ha la certezza dell’esistenza. In linea di principio gli elementi appercepiti, compresenti, hanno la possibilità di diventare direttamente presenti, cioè percepibili in maniera primaria; questo non è possibile nel caso dell’empatia in cui ciò che percepiamo direttamente è in realtà unicamente il corpo fisico dell’altro non la soggettività che vi si annuncia. L’altro non è presentato direttamente, ma è appercepito: in tale esperienza convergono sia una reale presentazione di tipo percettivo che una appresentazione, ovvero una apprensione che, a partire da una originaria base percettiva, si arricchisce di un surplus di senso che non è direttamente ricavato da quest’ultima.

Quando, nella mia sfera percettiva, si presenta un corpo simile al mio proprio, la coscienza promuove un appaiamento fenomenale e crea così una sorta di binario ove il senso specifico di organicità di cui è originariamente affetto il mio corpo scivola progressivamente verso il corpo altrui. Questo secondo corpo/cosa dunque acquista il senso di corpo vivo dal mio stesso corpo, pur conservando l’estraneità perché è per principio esclusa la possibilità di una sua originaria intuizione diretta: come le mie, le sue mani toccano, come i miei, i sui occhi vedono ed i suoi movimenti alludono a moventi psichici, etc…L’apparenza fenomenica dell’altro corpo si offre in manifestazioni mutevoli che, grazie all’ appaiamento, divengono segno di un comportamento motivato da dinamiche psichiche comprensibili sulla base della somiglianza al mio stesso io concreto: “Il modo di apparizione [del corpo dell’altro] non fa coppia in associazione diretta con il modo di apparizione che effettivamente possiede il mio corpo (nel modo del qui), ma suscita e riproduce un’apparizione simile appartenente al sistema costitutivo del mio corpo organico come corpo nello spazio.”

Come sopra abbiamo già avuto modo di notare, il mio corpo è il referente del mio ambiente-spazio, di cui costituisce continuamente il fulcro di orientazione. Poiché mi autopercepisco costantemente, pur cambiando prospettiva mantengo, grazie alla natura temporale della coscienza e alle sintesi da essa promosse, il sentore di uno stesso identico spazio, ma colto da differenti angolazioni: sono perciò in grado di distinguere un qui e un , cui competono differenti modi di apparizione di uno stesso ambiente: io appercepisco l’altro come un mio analogo, ma con un qui differente dal mio e, perciò con differenti prospettive di mondo pertinenti alla sua posizione che è necessariamente differente dalla mia. Io sono qui e l’altro è dove io potrei essere se mi piacesse. Là io vedrei le stesse cose che vedo ora , ma sotto una prospettiva diversa; Il dell’altro è il mio qui potenziale.

Io così colgo l’altro come un Ego altrove e gli attribuisco un proprio mondo ambiente di cui egli è assoluto centro spaziale. L’Altro è il custode dei punti di vista a me sconosciuti e insieme la garanzia della loro conoscibilità. L’aspetto attuale include e riflette la totalità dei possibili aspetti, componendo l’unità dell’intero oggetto.

Ciò che vale per lo spazio vale ugualmente anche per il tempo: “io sono ora, ero poco fa, sarò più tardi. Contemporaneamente, nello stesso tempo (nel tempo obiettivo), sono anche gli altri; i loro atti e i miei hanno una reciproca posizione temporale, che si determina secondo la contemporaneità, secondo il prima e il dopo, e questo tempo è lo stesso tempo del nostro mondo circostante” [7].

Si è così in presenza di diverse tematizzazioni, che costituiscono un sistema di apparizioni molteplici di un medesimo dato. Emerge in questo modo un senso oggettuale indipendente dalle prospettive di coglimento: la base di un mondo comune.

La teoria dell’analogia, presa in esame, si conferma così come la prima tappa di una costituzione di senso più ampia, ove, al riconoscimento dell’altro come tale, si aggiunge la costituzione di un ambiente di vita comune e quindi di un mondo culturale comune.

Il cogliere l’altro non solo arricchisce la mia visione del mondo svelandomi nuove prospettive prima sconosciute, ma contribuisce anche ad una visione più autentica e compiuta di me stesso. Attraverso la relazione empatica, cioè attraverso il cogliere il vissuto altrui, modifico l’immagine di me stesso: solo quando vedo come mi vedono gli altri riesco a cogliermi come unità psico-fisica, cioè riesco ad afferrare il legame corpo fisico-corpo vissuto e a percepire la sua somiglianza con gli altri.[8]   Senza empatia sarei limitato alla mia immagine del mondo (Weltanschauung), mentre l’accettazione dell’esistenza di più punti di vista non solo mi lascia scoprire un mondo comune e condiviso, ma di più mi conduce ad una presa di coscienza  “dell’essere artefici del proprio provvisorio- in infinitum imperfecto – orizzonte di verità”[9] (Ballerini e Stanghellini 1992). Va da sé che:

  • se l’apparizione del mondo è soggettiva e dipendente dalla coscienza individuale,
  • il mondo al contrario è indipendente dalla coscienza individuale, costituendo quasi un vero e proprio ostacolo al proliferare infinito di prospettive soggettive sempre nuove.

 

In altre parole, insieme alla mutevolezza a cui si offre la percezione del mondo, scopriamo anche la sua “costanza oggettiva”[10], che si scontra con “l’inganno costitutivo” (.v.Weizsäcker cit. in Blankenburg 1991), con la mera apparenza di ogni prospettiva. Riemerge nell’ottica della Stein il carattere pienamente fondativo dell’empatia quale elemento costitutivo dell’esistenza umana. Non colgo l’esperienza vissuta altrui perché prima ho colto la mia realtà interiore e il mondo esterno, al contrario è la relazione empatica a permettere una piena esperienza di sé e della realtà oggettiva.  Oltre ad un carattere fondativo l’empatia possiede anche un valore “correttivo” nel senso di un costante aggiustamento del mio modo di giudicarmi, arricchendo e perciò modificando le mie valutazioni: “come lo stesso oggetto naturale è dato in apparizioni così varie quanti sono i soggetti che percepiscono, così posso avere tante <<apprensioni>> del mio individuo psichico quanti sono i soggetti che apprendono”.[11] In questo caso l’empatia rappresenta un aiuto consistente nel cogliere se stessi; non solo, si offre anche come un correttivo delle illusioni a cui è soggetta la percezione interna. È interessante a questo proposito la replica della Stein alle tesi di Scheler sulle illusioni della percezione interna trattate nel saggio Idoli della conoscenza di sé e in seguito in Essenza e forme della simpatia.  

Il discorso di Scheler si poggia sull’esistenza postulata dall’autore di un originario flusso indifferenziato di vissuti che scorre indifferente alla distinzione di io-tu, proprio-estraneo.[12] Questo flusso vitale viene definito da Scheler “unipatia” (Einsfühlung): l’atto fondamentale, involontario e inconsapevole, che sta alla base della nostra relazione con gli altri e con il mondo; il caso limite di quello che l’Autore chiama “contagio affettivo” in quanto qui “non solo viene ritenuto inconsciamente come proprio un limitato processo emotivo di un altro [contagio affettivo], ma l’io dell’altro viene addirittura identificato (in tutti i suoi fondamentali atteggiamenti) col proprio Io [unipatia].”[13] È evidente nel bambino che inizialmente non possiede pensieri ed emozioni proprie, ma quelle dei suoi genitori, dei suoi fratelli, del suo popolo, ecc. “Fusa nello “spirito familiare”, in un primo tempo la sua vita propria gli resta quasi completamente nascosta!”[14] Solo secondariamente “solleva la sua testa spirituale” e oggettivando le esperienze del suo ambiente riesce a prenderne distanza e a condividerle.

Nel pensiero di Scheler l’esperienza dell’altro non è conseguenza dell’incontro intersoggettivo che va a modificare la costituzione dell’io, ma avviene sulla base di una “grammatica universale” che permette al soggetto di stabilire una correlazione fra vissuto ed espressione. “I nessi tra l’esperienza vissuta e l’espressione hanno dei principi elementari di coesione che sono indipendenti dai nostri movimenti espressivi specificatamente umani. Si ha qui come una grammatica universale che vale per tutti i linguaggi dell’espressione ed è il principio supremo della comprensione di tutti i generi di mimica e di pantomimica dell’essere vivente. Solo per questa ragione è anche possibile, ad es., che percepiamo l’inadeguatezza di un moto espressivo di un altro rispetto all’esperienza vissuta, anzi il contrasto tra ciò che il moto esprime e ciò che invece dovrebbe esprimere.”[15] I fenomeni espressivi ci restituiscono immediatamente l’esperienze vissute altrui: la tristezza nel pianto, la gioia nel riso, ecc.

 

Ancor prima della mia coscienza sono presente all’altro con il mio corpo. Riconosco nel corpo dell’altro, che ha la medesima struttura del mio, la presenza della sua coscienza: <<per me può esserci uno sguardo altrui, perché quello strumento espressivo che chiamiamo un volto può essere portatore di un’esistenza nello stesso modo in cui la mia esistenza è portata dall’apparato conoscitivo che è il mio corpo>> (Merleau-Ponty 1945). Lo riconosco come centro di un’azione umana che opera nel mio stesso mondo. Negli oggetti percepiti ritrovo la traccia del suo passaggio che da subito conferisce alla realtà un aspetto familiare.

“Il mondo, infatti, è “già là” offerto al nostro corpo prima di ogni giudizio e di ogni riflessione, così come il nostro corpo è già esposto al mondo in quel contatto ingenuo che costituisce la prima e originaria riflessione>> (Galimberti  1983). Il mio corpo non è un corpo qualunque, ma è mio in quanto intriso della mia soggettività: <<io sono il mio corpo” (Sartre 1943)[16].

Se sono al mondo lo sono con il mio corpo, irriducibile compagno della mia coscienza, veicolo delle mie intenzioni, spessore tangibile della mia soggettività. J.P. Sartre (1943) scrive che «il corpo è l’oggetto psichico per eccellenza, il solo oggetto psichico».

 

 

La simulazione incarnata[17]

Nei primi anni di vita assimiliamo il ‘come si fa’ attraverso un colloquio silente fra coscienze, pur sempre “incarnate”.  Scrive Merleau-Ponty (1945): <<lo schema corporeo assicura la corrispondenza immediata fra ciò che [il bambino] vede fare e ciò che fa, e in questo modo l’utensile viene precisandosi come un manipulandum determinato e l’altro come un centro d’azione umana>>. Recenti studi di neurofisiologia hanno ulteriormente dimostrato attraverso esperimenti sulle scimmie questa correlazione. (Gallese e Goldman 1998; Gallese 2003; 2005; Gallese, Keysers e Rizzolati 2004) In particolare è stata scoperta una  classe di neuroni nella corteccia premotoria delle scimmie: i “mirror neurons” (neuroni specchio). Questi neuroni si attivano nella scimmia sia quando questa compie una determinata azione, sia quando la stessa osserva la medesima azione compiuta da un altro individuo. Alcune evidenze sperimentali rendono ipotizzabile la presenza di un sistema molto simile nell’uomo. Questo spiegherebbe per esempio la nostra capacità di immedesimazione nell’altro e più in generale la nostra risonanza alla presenza di un altro individuo. Gallese parla di “simulazione incarnata” (embodied simulation) per descrivere quel processo automatico e inconsapevole per mezzo del quale comprendiamo un’azione altrui a partire da una simulazione interna della medesima azione riscontrabile attraverso l’attivazione dei neuroni e dei muscoli che sarebbero stati coinvolti nel compiere effettivamente quel gesto. Questo succede sia quando percepiamo un movimento di un altro individuo, sia quando semplicemente lo immaginiamo.[18]

Questo “livello di base” attraverso la simulazione incarnata costituisce <<uno spazio interpersonale condiviso e intelleggibile […] che non si esaurisce nel mondo delle azioni, [ma] coinvolge […] tutti quegli aspetti che definiscono un organismo vivente, dalla forma del suo corpo alle sue sensazioni ed emozioni>> (Gallese 2003). Sé ed altro da sé sono correlati in quanto fanno parte di questo spazio condiviso, “noi-centrico”: entrambi sono parte di un “sistema dinamico guidato da regole di reversibilità”.

Secondo i modelli della scienza cognitiva classica, azione e percezione costituiscono processi indipendenti e del tutto periferici rispetto alla cognizione. I nostri sistemi sensoriali registrerebbero i dati del mondo esterno che sarebbero poi interpretati e compresi dai sistemi cognitivi. Il sistema motorio secondo questo modello non rappresenterebbe che un mero strumento per tradurre in movimenti le risposte che il sistema cognitivo ha elaborato. La scoperta dei neuroni mirror ha radicalmente mutato il nostro modo di concepire il rapporto tra azione, percezione e processi cognitivi. In particolare questa scoperta ha messo in evidenza per la prima volta un meccanismo neurofisiologico capace di spiegare molti aspetti della nostra capacità di entrare in relazione con gli altri, quali la nostra capacità di comprendere il significato delle azioni altrui, di imitarle, e di afferrare le intenzioni che ne sono alla base.

Conclusioni

 

È una scoperta sempre piacevole quando alcune antiche e più attuali tesi filosofiche, antropologiche e psicologiche vengono corroborate da più ascoltate e oggettive ipotesi scientifiche. Mi riferisco soprattutto ad alcune correnti filosofiche come quella fenomenologica attente ai vissuti soggettivi e a tutti quegli approcci che hanno superato l’antica scissione cartesiana mente-corpo[19]. Sempre più infatti evidenze scientifiche spiegano quanto sia artificiale e sostanzialmente erroneo concepire l’uomo come sistema cognitivo senza un corpo. Andare oltre questa dicotomia ci aiuta a comprendere come alcune parti del sistema nervoso prima escluse da processi complessi come quelli alla base dell’intersoggettività siano in realtà elemento fondante di tali processi[20]. Scoprire che il sistema motorio sia parte integrante della nostra comprensione dell’altro non riduce affatto la complessità psichica umana semmai contribuisce ad evitare pericolosi ragionamenti deduttivi che portano a conclusioni lontane dall’immediatezza comportamentale.  D’altra parte alcune osservazioni filosofiche, forti di un punto di vista slegato da una professionalità specifica come quella psicologica e medica, risultano utilissime a stimolare nuovi interessi di ricerca e ad ampliare gli orizzonti di alcune branche scientifiche.

Il risultato di questo connubio è il raggiungimento di frontiere che la neuroscienza fino ad ora ignorava. Basti pensare alle diverse applicazioni della scoperta dei neuroni specchio in ambito psicologico (autismo infantile) e sociologico. L’unico limite di tali scoperte è il cercare di ricondurre diversi comportamenti umani apparentemente di uguale matrice allo stesso meccanismo fisiologico rischiando in tal modo di rallentare i progressi scientifici e operare facili, ma erronee generalizzazioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

 

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Riferimenti

 

[1]    Lipps Theodor (Walhalben, Palatinato, 1851 – Monaco 1914) filosofo e psicologo tedesco. Insegnò a Bonn, Breslavia e Monaco, dove fondò l’Istituto psicologico.
[2]    Dilthey Wilhelm (Biebrich, Renania, 1833 – Siusi, Bolzano, 1911) filosofo e storico tedesco. È il più importante rappresentante dello storicismo tedesco contemporaneo. Compì gli studi all’Università di Berlino. Insegnò successivamente a Basilea, Kiel, Breslavia e Berlino.
[3]    Husserl,E (1913)  Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia trascendentale p. 587
[4]    Husserl,E (1913) Op. cit. p. 587
[5]    Husserl (1950)
[6]    Husserl (1950)
[7]    Husserl,E (1913)   p. 598
[8]    Stein (1917)
[9]    Ballerini, A., Stanghellini, G. (1992) Ossessione e rivelazione. Boringhieri, Torino.
[10]    “Ciò che resiste non solo nel cambiamento, bensì anche contro il cambiamento delle prospettive è il conformarsi all’identità di ciò che si incontra” (Blankenburg 1991)
[11]    Stein (1917)
[12]    Scheler (1973)
[13]    Scheler (1973) p. 65. Scheler descrive alcuni casi paradigmatici di unipatia: l’identificazione nelle popolazioni primitive con un materiale inanimato, con un membro della specie animale del totem, con il proprio avo; l’unipatia che caratterizza gli antichi misteri religiosi in cui i riti di iniziazione di tipo estatico riproducono gli stadi della vita dell’iniziato ( alla decadenza di tali riti è corrisposto in molte civiltà lo sviluppo dell’arte teatrale in cui l’unipatia estatica viene ridotta a pura “empatia simbolica”); l’unipatia del rapporto ipnotizzatore e ipnotizzato; i casi di unipatia descritti da Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’io; la forma di unipatia dell’atto sessuale compiuto per amore; l’unipatia che si stabilisce nel rapporto madre-figlio, ecc. La conclusione addotta da Scheler è che un minimo di unipatia non specificata sia sicuramente costitutiva dell’uomo e, nonostante l’evoluzione dei popoli abbia portato alla perdita della capacità di unipatia fino a giungere ad una ipertrofia dell’”intelletto”, alcuni residui sono conservati nel bambino, nel sognatore, nel malato nevrotico. (Scheler 1973)
[14]    Scheler (1973)
[15]    Scheler (1973) p.  56
[16]    Sartre 1943 L’essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologia. Tr. it. il Saggiatore, Milano 1965
[17]     Il concetto di “simulazione incarnata” è proposto da Gallese, V. all’interno dei suoi numerosi articoli di ricerca sull’argomento. Per una trattazione più esaustiva si veda:- Gallese e Goldman Mirror neurons and the simulation theory of mind-reading. Trends in Cognitive Sciences, 12:493-501, 1998; – Gallese The roots of empathy: The shared manifold hypothesis and the neural basis of intersubjectivity. Psychopatology, Vol. 36, No. 4, 171-180, 2003; – Gallese La molteplice natura delle relazioni interpersonali: la ricerca di un comune meccanismo neurofisiologico. Networks, 1: 24-47, 2003.- Gallese Embodied simulation: from neurons to phenomenal experience. Phenomenology and the Cognitive Sciences, 2005, 4:23–48; – Gallese, Keysers e Rizzolati  A unifying view of the basis of social cognition. Trends in Cognitive Sciences, 8: 396-403, 2004.
[18]     È un sistema che ci permette di prevedere in anticipo il fine o lo scopo di una certa azione, senza operare un’elaborazione cognitiva che vagli le varie alternative per poi giungere ad una rappresentazione finale dell’evento. A differenza degli animali noi riusciamo ad attribuire all’azione altrui un’ intenzione e questo ci permette, successivamente, di influenzare attivamente il corso degli avvenimenti. Si veda a questo proposito anche Lorenz, K. L’anello di Re salomone
[19]   vedi paragrafi precedenti di questo scritto.
[20]   vedi Damasio (1994)


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