HUMANITAS: LA MILLENARIA  EREDITA’  DI  TERENZIO

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A parte alcune esegesi di varia scuola alquanto riduttive, la notissima battuta con la quale Cremete risponde a Menedemo agli inizi del primo atto del Heautontimorumenos di Terenzio: Homo sum: humani nihil a me alienum puto (v. 77), viene concordemente considerata il primo esplicito  manifesto di un ideale di humanitas  in ambiente romano, ideale che, partendo da radici elleniche (la philanthropìa, in particolare quella insegnata da Epicuro), attraverso Roma transiterà nel mondo cristiano e poi nel corso dei secoli in tutte le altre civiltà europee ed extraeuropee, fino a diventare il caposaldo della Carta dei diritti dell’uomo.

Cerchiamo, innanzitutto, di comprendere le ragioni, il senso e la portata storico-sociale di tale modulo drammatico, che d’altra parte sintetizza compiutamente il messaggio antropologico della commedia terenziana. Sarebbe oggi improponibile, infatti, una lettura del testo poetico che prescindesse da una prospettiva morale. In un’interessante introduzione alle opere di Terenzio, Orazio Bianco[1] conclude la sua analisi circa la nuova sensibilità che caratterizza i personaggi di Terenzio con questo pensiero: “L’uomo vive al di là dello statuto sociale”. Il pensiero finale è tuttavia preceduto e giustificato da alcuni rilievi che conviene di seguito riportare: “…dietro i postulati e i comportamenti istituzionalizzati in rapporto alla famiglia, esiste la possibilità di far vivere il sentimento e il desiderio. I suoi drammi son sorretti anche dalla convinzione che solo eliminando quelle maschere, con uno scavo di realistica e limitata destrutturazione, si può ritornare all’identità autentica di ciascuno; e che anzi la maschera dei ruoli sanziona l’incomunicabilità, ingenera la prevenzione e rende impossibile il dialogo”.

Credo però che, come hanno inteso in passato e ancora di recente alcuni intendono, accanto al senso principale che in precedenza ho indicato, si debba reputare che l’humanitas terenziana contenga anche un senso secondario e in qualche modo complementare, anch’esso presente nelle fonti greche: la formazione di un animo sensibile attraverso l’esercizio della letteratura e della filosofia, insomma l’acculturazione, che i greci definivano con il termine paideia. L’umanità non  può rinnovarsi, dunque, se non attraverso una seria e rigorosa formazione. Ancora oggi è così, quantunque alla letteratura e alla filosofia vadano aggiunte molte altre conoscenze, indispensabili all’uomo per essere veramente uomo. In ogni caso, si tratta di un senso secondario, già da secoli presente nella civiltà antica. Quel che è, invece, assolutamente nuovo è la convinzione dichiarata dell’uguaglianza degli uomini nella loro natura e soprattutto nelle loro relazioni.

Ovviamente, data la struttura politica della Roma del II a.C., Terenzio non mette in discussione né l’organizzazione sociale, e neppure il mos maiorum. Sarebbe passato per un sovversivo, e comunque questo non era né nelle sue intenzioni, né nella sua impostazione ideologica. Egli ritiene di poter avvalorare il principio che, quantunque forti siano le differenze sociali ed economiche, anche nella realtà quotidiana, come sulla scena, è realizzabile una communitas senza odi e senza violenze. Né poteva, d’altra parte, permettersi di essere un sovversivo, essendo strettamente legato ad una certa parte dell’aristocrazia romana, quella che faceva capo agli Scipioni, e che si caratterizzava per una politica di tolleranza, di accoglienza e di apertura culturale soprattutto nei confronti dei Greci, pur nel rispetto dei valori fondanti della res publica. Al contrario della fazione che aveva come proprio leader Catone il Vecchio e rappresentava il capitalismo agrario e mercantile, una fazione quindi impegnata a salvaguardare il primato italico, i suoi antichi principi etici e civili, e a difenderli dal contagio, considerato pernicioso, dei graeculi.  Indubbiamente, il messaggio terenziano nasceva dal clima culturale e innovativo del Circolo degli Scipioni e in qualche modo dallo stesso veniva politicamente garantito, al punto che per questo motivo ed altri meno rilevanti (la giovane età dell’autore, l’alta qualità letteraria già della prima fabula, e la sue origini né romane né greche) nel corso dei secoli si è dibattuto a lungo su chi fosse il vero autore delle sue commedie. Ma, lasciando da parte la vexata quaestio sulla vera paternità delle commedie di Terenzio, mi preme ripercorrere con i lettori l’itinerario della ricezione del messaggio terenziano nei secoli successivi.

In moltissimi autori romani ricorre il termine humanitas accanto all’orgoglio patrio della sua ideazione (soprattutto in Plinio il Vecchio), ma non sempre il suo senso corrisponde a quello inteso da Terenzio e dai maestri greci cui egli si ispirò (Senofonte, Epicuro tramite Menandro[2], e il coetaneo Panezio). In Cicerone, infatti, l’accezione di humanitas come solida cultura e raffinata eloquenza prevale notevolmente su quella di philantropìa, essendo questa, a suo avviso, difficilmente e misuratamente coniugabile con i principi di gravitas, dignitas e auctoritas, che erano propri della tradizione romana[3]. L’atteggiamento ciceroniano è in gran parte condiviso da molti altri scrittori dell’età sua e di quelle successive, in genere esponenti di un’aristocrazia conservatrice e gelosa dei propri privilegi. Aulo Gellio è un testimone fondamentale della diversa ricezione che si dava del termine humanitas. Egli, infatti, avverte la necessità di darne una puntuale spiegazione, che riporto di seguito: “ I creatori della buona lingua e quelli che ne hanno fatto il giusto uso non intesero la parola humanitas nel senso che volgarmente si ritiene, cioè un equivalente del greco philanthropìa che significa una generica inclinazione e benevolenza verso il genere umano. Humanitas è per loro qualcosa come la paideia dei greci, che noi diciamo educazione e addestramento nelle arti liberali. Coloro che a queste arti sinceramente aspirano e le ricercano, costoro sono anche di gran lunga i più umani; infatti, la passione e l’applicazione di tale scienza è privilegio dell’uomo solo tra tutti gli esseri viventi: e perciò fu chiamata humanitas[4]. E a proposito dell’interpretazione alla quale dà maggior credito, Gellio cita come fonti indiscutibili Varrone e Cicerone. E’ evidente, tuttavia, il suo tentativo di accordare le due accezioni, sottolineando anche la validità di quella per così dire volgare, seppur in un rapporto di subalternità. Lezione volgare non proprio e non sempre, direi, se è vero che in una lettera del dottissimo Plinio il Giovane, humanitas compare come atteggiamento di comprensione e benevolenza nell’amministrazione della giustizia in regioni provinciali, e l’autore apprezza (egregie facis) il suo amico Tirone che così si comporta[5]. Ma Aulo Gellio fu solo un buon erudito, poco attento e interessato, alla maturazione e all’approfondimento delle idee attraverso le quali si evolveva la società umana, indifferente o quasi agli ideali che l’elaborazione filosofica intanto sviluppava. Non a caso, proprio riguardo alla questione di cui stiamo trattando, egli, pur appellandosi a Varrone (altro erudito) e a Cicerone, ignora quanto a proposito del termine humanitas e della sua sostanza ideologica aveva intanto scritto Seneca[6], che per noi rappresenta uno snodo essenziale per il passaggio al cristianesimo e quindi al moderno valore semantico della parola, cioè l’amore verso il prossimo.

E su Seneca vale la pena soffermarsi quanto serve. Le sue riflessioni sul vero senso da dare al termine humanitas sono presenti qua e là nei Dialoghi, ma soprattutto nelle Lettere a Lucilio, alcune delle quali costituiscono senza dubbio la fase di maturazione più alta e moderna del pensiero pagano, come riconosce lo stesso Agostino in De civitate Dei 6.10, considerandole l’opera più bella e più utile del mondo antico, cui senza remora alcuna si dichiara debitore[7]. Ebbene, a me sembra che tra le Lettere a Lucilio le più interessanti ai fini della nostra ricerca siano la 5.47, la 13.88 e la 15.95. Esaminiamole brevemente tutte, da momento che esse sono fra loro legate da motivi che possono essere ricondotti ad una visione organica e unitaria. Nella 5.47 si riscontra un esplicito riconoscimento dell’uguaglianza degli uomini e dei servi[8]. Più solida e articolata è la riflessione che egli svolge nella 13.88, laddove discute della scarsa utilità delle arti liberali per il conseguimento della saggezza, quelle arti liberali che, incluse nel concetto unitario di paideia, per Cicerone e i suoi seguaci rappresentavano la connotazione propria, e comunque un requisito indispensabile, dell’humanitas. Secondo Seneca le arti liberali danno poco, se non proprio distolgono l’uomo dall’essere saggio[9]; la saggezza si consegue praticando non le arti ma le virtù (coraggio, fedeltà, temperanza, ecc), fra le quali un ruolo centrale occupa l’humanitas. “La virtù che chiamiamo umanità  – afferma –  vieta la superbia nei rapporti sociali, vieta la sgradevolezza. Con tutti si mostra amabile e cordiale nelle parole, nelle azioni, nei sentimenti; non c’è male che stimi suo, e dei suoi beni ama soprattutto quello che può giovare al prossimo. Gli studi liberali non insegnano queste virtù, così come non insegnano la semplicità, la modestia e la moderazione, la frugalità e la parsimonia, la clemenza che si astiene da ogni spargimento di sangue, e sa che nessun uomo può abusare di un altro uomo”[10]. Ma è in 15.95.51-53 che Seneca spiega in modo ancor più chiaro come un uomo debba comportarsi verso il suo prossimo, citando alla fine proprio il verso terenziano dal quale noi siamo partiti. “Ecco un altro problema: come dobbiamo comportarci con gli uomini? Che facciamo? Che cosa insegniamo? Diremo che dobbiamo astenerci dal sangue umano? Quanto poca cosa è non fare il male a colui al quale si dovrebbe fare il bene! E’ un merito ben meschino per un uomo non infierire su un altro uomo! Insegneremo a porgere la mano al naufrago, o a indicare la vita a chi l’ha smarrita, a dividere il proprio pane con chi ha fame? Perché dovrei dire ciò che va detto e ciò che va evitato, quando tutti i doveri umani si possono sintetizzare in questa breve formula? Tutto quello che vedi, e in cui si raccoglie ogni essere umano o divino, forma un tutto solo: noi siamo membra di un gran corpo. Siamo partecipi per natura della stessa famiglia, poiché, composti degli stessi elementi, tendiamo allo stesso fine. La natura ci ispirò il reciproco amore e ci fece socievoli. Essa regolò l’equità e la giustizia: secondo i suoi principi è più miserevole chi offende che chi è offeso. E’ un suo comandamento che le mani devono essere sempre pronte a beneficare. Ci sia sempre nell’animo e sulle labbra quel verso famoso: homo sum, hunani nihil a me alienum puto[11]. L’humanitas, quindi, come principio categorico fondamentale della morale umana!

Seneca fu un autore molto letto nei secoli successivi, soprattutto in ambienti cristiani o vicini al cristianesimo. Lo provano non solo le tante citazioni contenute nei testi rimastici, ma anche l’esistenza di un epistolario apocrifo con San Paolo, probabilmente opera di un anonimo scrittore pagano convertitosi alla nuova fede. Generalmente la sua redazione si attribuisce al III-IV d.C. Per quanto riguarda Terenzio è quindi probabile che gli scrittori cristiani ne avessero appreso il concetto di humanitas proprio dagli spunti offerti da Seneca, dal momento che in quei secoli le commedie terenziane non erano affatto rappresentate, per l’affermazione di spettacoli frivoli e talora osceni, duramente criticati dai cristiani[12]. Al massimo si poteva assistere, ma in luoghi molto riservati e aristocratici, a delle recitationes. Insomma, Terenzio sopravviveva nella coscienza e nella conoscenza culturale soprattutto attraverso la memoria di letterati pagani, come Seneca e i due Plini, ovvero la lettura delle sue fabulae nei non molti e sicuramente costosissimi manoscritti che circolavano.

Tramite Seneca certamente avrà appreso il messaggio terenziano il dotto Lattanzio, che ne fa oggetto di alcune argomentazioni di carattere morale e sociale nei libri III, V e VI delle inst. In lui gli spunti offerti da Seneca, più che da Cicerone, ricevono un forte avvaloramento nella prospettiva del perfezionamento dell’uomo e della realizzazione delle sue autentiche capacità e aspirazioni. Più sentita e originale, e pur sempre mediata dalla filosofia neostoica, è la ricezione di Ambrogio nell’off. (3.7.45), anche perché il suo impegno nel sociale fu notevole come aspra fu la polemica contro la ricchezza[13]. Ma fu soprattutto Agostino a dare maggior risalto alla massima terenziana.

Benché in altri punti della sua enorme produzione scritta Agostino faccia allusioni al valore educativo del teatro terenziano, è nell’ep. 155.14 che si sofferma in modo particolare, con una esegesi cui molti scrittori successivi hanno fatto riferimento, sul significato e la portata morale e culturale del verso in questione. Dopo aver spiegato con estrema chiarezza e convinzione al destinatario della lettera, il vicario d’Africa Macedonio, il concetto di prossimo e l’imprescindibilità del dovere di un cristiano di amarlo allo stesso modo di se stesso, riporta testualmente non solo la risposta di Cremete, ma anche la domanda di Menedemo. Terenzio non è citato con il suo nome, ma richiamato come ille comicus, nell’intenzione di sottolinearne la notorietà e il valore. Ma quel che assume altra notevole rilevanza documentale è ciò che riporta a commento dei versi citati: …cui sententiae ferunt etiam theatra tota plena stultis indoctisque plausisse. Ita quippe affectum omnium naturaliter attigit humanorum societas animo rum. Ut nullus ibi hominum nisi cuiuslibet hominis proximum se esse sentiret. Qui appaiono indispensabili due considerazioni filologiche: Agostino conosce bene il testo di Terenzio, e probabilmente ne possiede un manoscritto; la testimonianza sulla reazione del pubblico alla recitazione della battuta di Cremete è evidentemente di fonte orale o deriva da qualche biografia a noi sconosciuta. In ogni modo, si può concludere che Terenzio abbia goduto di buona fama negli ambienti cristiani, a differenza di altri drammaturghi antichi e soprattutto degli autori del cosiddetto teatro minore. Ma non c’è dubbio che tale fama sia dipesa anche dagli apprezzamenti di Seneca.

Sull’esempio e sull’autorità di Agostino il messaggio umanistico partito da Terenzio attraversò tutti i secoli successivi arricchendosi di nuovi interessanti apporti in tutti i campi del sapere. Restò un punto fermo della civilizzazione umana, pur spesso incrociandosi con eventi e dottrine che tentarono di capovolgerne il valore e la pratica[14]. Una ripresa altrettanto autorevole e valorizzante, che qui non può non essere segnalata, fu quella di I. Kant, che afferma: ”Umanità significa da un lato il sentimento universale della simpatia, dall’altro la facoltà di poter comunicare intimamente e universalmente: due proprietà che insieme costituiscono la  disposizione alla comprensione degli altri o alla simpatia verso di essi” e di qui l’esortazione: “ Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche come scopo, e mai come semplice mezzo[15]. Dalle lontane radici terenziane nacquero, dunque, e si svilupparono rami e frutti sempre più forti e benefici, che trovarono nella Carta dei diritti dell’uomo il loro approdo universale, un approdo che comunque va difeso da tutti giorno dopo giorno, per salvare l’uomo e la sua meravigliosa essenza.

Naturalmente dobbiamo considerare eredi di Terenzio tutti coloro, filosofi scienziati teologi e uomini comuni, che ieri come oggi hanno pagato e pagano con la vita, o con altre costrizioni mortificanti, per difendere la propria libertà religiosa politica scientifica ma anche esistenziale. Fra questi mi limito a ricordare i casi più noti e sconvolgenti: Ovidio, lo stesso Seneca e gli altri intellettuali uccisi dagli imperatori romani, i martiri cristiani, Giuliano di Eclano, Arnaldo da Brescia, frate Dolcino, Cecco d’Ascoli, Abelardo ed Eloise, Sigieri di Brabante, Jan Hus, Pico della Mirandola, Miguel Servet, Giordano Bruno, Lutero, i circa diecimila protestanti massacrati  in Francia la notte di San Bartolomeo del 1572, Galileo Galilei, le innumerevoli vittime di tutti i totalitarismi e delle guerre razziali del secolo scorso e di questi primi anni del terzo millennio.

Mi piace concludere questo mio lavoro con una riflessione di Maurizio Bettini sulla modernità di Terenzio. “L’efficacia delle trame scelte – egli dice -, ovvero la profondità delle parole affidate ai personaggi sulla scena, fanno sì che Terenzio risulti un autore estremamente moderno  e vicino ai nostri interessi contemporanei. Si tratta di uno degli aspetti dell’arte terenziana che più contribuiscono a fondare la sua humanitas. Un tema come la violenza subita dalla giovane Filumena dell’Hecyra, per esempio, riesce di immediato interesse anche per i lettori di duemila anni dopo. Ancora una volta, è il modo in cui questo evento è posto in relazione con altri a rivelarsi decisivo – sono le parole “pronunziate” dalla trama, il messaggio che da essa ricaviamo. La violenza entra infatti in rapporto con le relazioni (di volta in volta diverse) di altre persone che stanno intorno alla donna: il marito, che si ritrae, il padre e il suocero, che vorrebbero tenere il bambino, la suocera. Nell’Hecyra la violenza sulla donna provoca conseguenze di intreccio, e dunque riflessioni culturali, che immediatamente si prestano ad essere riprese oggi per comprendere buona parte delle reazioni e dei comportamenti che eventi traumatici di questo tipo suscitano nella società contemporanea. Terenzio sceglie nodi “duri” della vita sociale e li presenta in una iniziale situazione di incomunicabilità: il seguito della vicenda consisterà nel creare la comunicazione fra i personaggi, nel farli riflettere, spiegare. In questo senso, il suo è un teatro della comunicazione, inteso come il valore più alto della cultura: e l’homo sum dell’Heautontorumenos è veramente la sua frase più rappresentativa”[16].

 

[1] P. Terenzio Varrone, Commedie, UTET, Torino 1993.

[2] Vale la pena qui ricordare che sia la vita che il pensiero di Epicuro furono improntati ad un ideale di missione al servizio di tutti quanti fossero disposti a far tesoro dei loro benefici. Nel suo “Giardino” ateniese venivano accolti anche le donne e gli schiavi, e fra tutti vigeva un rapporto di tolleranza e solidarietà. Tra le altre sue testimonianze al riguardo mi piace riportare il frammento della lettera a Timocrate (edita e tradotta da C.Diano in Epicuri Ethica, Firenze 1926-rist. 1974, XII, p. 27): “Vedendo come ho sistemato le cose per bene, soccorri anche loro, non soltanto per la tua intimità con loro, ma anche per la loro buona indole, in modo che possano avere sempre tutto l’aiuto necessario perché non manchi loro nulla, e ciò che conviene a chi è esperto nel nostro stesso destino e benevolmente accetta nella città che abita di essere un emarginato.”

[3] Il verso terenziano viene richiamato da Cicerone due volte in tutta la sua vasta opera. La prima nel de leg. 1.33, la seconda in de off. 1.30. Entrambe le volte, però, la forza ideale e morale dell’espressione terenziana risultano quasi spente in un’argomentazione svolta sul piano giuridico, che dà l’impressione al lettore che l’autore ne voglia limitare,  nella ricerca di una sua giustificazione, la grande portata innovativa.

[4] 13.17.1. Trad. di G. Bernardi-Perini. UTET, Torino 1992.

[5] ep. 9.5.

[6] Infatti, in una sua nota su Seneca (12.2), lascia trasparire un giudizio poco positivo sul grande intellettuale, sottolineando con enorme leggerezza critica la dissociazione fra il suo pensiero e la sua vita: “Ma costui, che lo studio della filosofia accostò alla vera libertà, senatore com’era dell’illustre popolo romano, inseguiva ciò che rimproverava, faceva ciò che biasimava, ciò che incolpava, adorava” (trad. La Rusca, BUR, Milano 1968.

[7] Va precisato, tuttavia, che l’apprezzamento di Agostino non è totale, condizionato com’è dalla sua filosofia neoplatonica e dalle ragioni di un’egemonia culturale che la chiesa trionfante, di cui egli era il teorico indiscusso, era particolarmente preoccupata di far rispettare. Un altro suo giudizio su Seneca è davvero stroncante, anzi spietato: “costui che i filosofi fecero quasi libero, tuttavia, poiché era illustre senatore del popolo romano, venerava ciò che riprendeva, faceva quello che accusava, quello che incolpava, lo adorava” (civ., 6.10).

[8] Riporto le prime significative affermazioni (1-2): “Con molto piacere ho appreso da persone provenienti da costì che tu hai un comportamento molto cordiale con i tuoi schiavi: questo si addice alla tua saggezza e alla tua educazione. ‘Ma – si ripete da più parti – sono schiavi’. Sono uomini, anzitutto: vivono con te, sono tuoi umili amici, o meglio sono i tuoi compagni di schiavitù, se pensi che la fortuna ha lo stesso potere su di essi e su di noi. Perciò rido di coloro che stimano disonorevole cenare con il proprio schiavo” trad. G. Monti, BUR, Milano 2008.

[9] Emblematica la considerazione a proposito della geometria (11): “A che mi serve saper fare la divisione di un campicello, se poi mi rifiuto di dividerlo con un fratello?”.

[10] Trad. G. Monti, op. cit., 13.88.30.

[11] Trad. G. Monti, op. cit.

[12] Seneca visse e scrisse sicuramente prima che fossero codificati i testi del Vecchio Testamento e definiti per iscritto quelli del Nuovo Testamento, fra i quali anche quelli di San Paolo. I richiami alla fratellanza e alla solidarietà, oltre che alla giustizia, erano certo principi sui quali si formarono intorno ai discepoli di Cristo i primi gruppi  ecclesiali, ma andrebbe  indagato, più rigorosamente e senza inutile orgoglio di primato, in che misura l’opera e il pensiero di Seneca abbiano influito, direttamente o indirettamente,  sulla redazione a noi pervenuta sia dei vangeli canonici sia di quelli apocrifi, procedendo anche per attente analisi intertestuali. Ad esempio, il brano di Matteo relativo al cosiddetto ‘discorso della montagna’(7.12), presente anche in Luca (6.31) : “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”, non è forse anche nella sua fisionomia sintattica di tipo gnomico molto vicino ad alcune massime senecane? Ma il problema storico-filologico è ancora oggetto di molte ricerche e registra disparate opinioni. A me sembra che in questa disamina sull’humanitas non si possa non far riferimento al ruolo di mediazione e approfondimento svolto da Seneca tra Terenzio e il cristianesimo, come pure si può evincere dalla ricezione agostiniana, di cui subito dopo.

[13] Cfr. S. Mazzarino, Storia sociale del vescovo Ambrogio, “L’erma” di Bretshneider, Roma 1989.

[14] Certo Francesco di Assisi non conosceva Terenzio né Seneca, ma la sua scelta di vita e la donazione di sé agli altri scaturivano da un retroterra culturale e spirituale diffusosi fra i cristiani militanti soprattutto allorché la Chiesa di Roma assunse un’identità fortemente politica. Per quest’ultimo motivo non solo ma anche per ragioni legate ad una nuova filosofia antiaristotelica dell’uomo e della natura, una filosofia che potremmo definire dell’azione, G. B. Vico più volte si soffermò sul tema dell’amore per il prossimo con appassionate argomentazioni, come si può dedurre ampiamente dai numerosi studi sul Nolano compiuti e pubblicati da A. Montano (cito fra gli altri: La fiamma e la farfalla, Ed. Marte, Salerno 2003; Giordano Bruno e Pitagora, Ed. Genius Loci, Nola 2003), al quale va la mia più sincera riconoscenza per avermi fatto conoscere e capire meglio questa straordinaria figura di pensatore, sul quale già il De Sanctis aveva espresso giudizi estremamente positivi, come quello che segue: Se in questa Italia arcadica vogliamo trovare uomini, che abbiano una coscienza, e perciò una vita, cioè a dire che abbiano fede, convinzioni, amore degli uomini e del bene, zelo della verità e del sapere, dobbiamo mirare là, in questi uomini nuovi di Bacone, in questi primi santi del mondo moderno, che portavano nel loro seno una nuova Italia e una nuova letteratura. Inchiniamoci prima innanzi a Giordano Bruno(penultimo capitolo della sua Storia della letteratura italiana, intitolato La nuova scienza).

[15] Critica della ragion pratica (passim).

[16] M. Bettini, La letteratura latina, La Nuova Italia, Firenze 2002, I, p.309.


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